PANTA REI

L’articolo di Pierpaolo Dal Monte “La politica ai tempi del colera, appunti su teoria e prassi”, ci espone severamente la situazione e il compito che abbiamo di fronte nell’impostare le linee di un cambiamento politico: dobbiamo tagliare i rami secchi, eliminare gli armamentari ormai inutili e cancellare tanto tratto di strada che – portandoci sin qua – si è dimostrata infida e maligna.

Non si può non concordare.

E ci mette anche in guardia dalla facile tentazione di volgerci a vagheggiare il ritorno a modelli, idee e contenuti legati ad un lontano paradiso perduto, al ritorno ad un’età dell’oro che – ammesso che sia mai esistita (i favolosi trenta?) – sarebbe in ogni caso impossibile da ricreare.

“Idealizzazioni che indulgono a vacue fantasie” si dice.

E se pure condizioni di vita realmente migliori si fossero concretate in passato e tali livelli generali siano senz’altro desiderabili (soprattutto se confrontati con le innegabili sofferenze del presente) ebbene tanti e tali avvenimenti, tanti e tali cambiamenti di ordine strutturale si sono radicati che sarebbe del tutto impossibile districare i fili dell’intreccio, tornare a separare le acque ormai miscelate dalla corrente.

“La storia non conosce retromarce” conclude Pierpaolo Dal Monte con molte ragioni.

E io non ho obiezioni concettuali da apporre.

Ho un solo rammarico, insieme ad alcune riflessioni propositive.

Il rammarico è quello di una personale testimonianza di chi dei simboli, dell’immaginario e dei contenuti si è nutrito e ha alimentato la propria visione del mondo e dell’esistenza: l’impegno della coscienza morale della tragedia greca, la suggestione dei versi di Virgilio, Orazio e dei poeti elegiaci (con i valori profondi dello spirito che essi investono) insieme ai temi della lirica cavalleresco-cortese che hanno creato per secoli il clima sentimentale dell’anima europea.

Del resto, fine alto e ultimo dell’uomo è dare senso all’esistenza: riempire di senso, cioè di significati gli eventi e gli oggetti della nostra esperienza; di qui l’immaginario prima individuale (il vate, l’aedo) poi collettivo della mitopoiesi comunitaria.

Del resto, non si è spesso fatto così? Non è stato molte volte rigenerante rifarsi a modelli del passato?

Per primo fu San Patrizio che dall’Irlanda salvò i testi classici portandoli nel continente, insieme a San Colombano in Italia con la fondazione dell’abbazia di Nonantola; la cosiddetta Rinascenza Carolingia si avvalse proprio di questo impulso.

Con una risonanza più eclatante il Rinascimento si intestava proprio la missione di riportare in vita le lettere e le arti di età classica (più greca per la verità) improntandone tutta un’epoca.

Ma la stessa Rivoluzione francese, prima di Termidoro, vedeva nell’antica Repubblica Romana un modello ideale ma anche formale (trasferito nella moda, nel gusto nelle arti), basti ricordare i quadri di David, tra cui il più eloquente, il Giuramento degli Orazi e dei Curiazi.

E soprattutto la Chiesa Cattolica per due millenni ha tramandato lingua, riti, simboli e allegorie in una continua rimemorazione.

Oggi lo sappiamo, non è più così, e non solo per il Cattolicesimo ma anche per varie istituzioni civili che Dal Monte lucidamente ci ricorda che la maggior parte di quei simboli – i simboli della nostra storia – si sono irrimediabilmente logorati.

LA PERDITA DELLA SPINTA PROPULSIVA DEI SIMBOLI

E questo per me è un punctum dolens, il cruciale e tormentato problema di quali siano le condizioni, i requisiti perché un’epoca, una fase, pur fertile e ricca un tempo, sia ancora emblematica, eserciti ancora fascinazione nell’immaginario e meriti di essere richiamata alla memoria senza che la desolazione e il senso di inutilità possano assalire un San Patrizio, un Marsilio Ficino o un David.

Ma innegabile il NON SI PUO’ TORNARE INDIETRO per i modelli politici, economici e sociali: l’accelerazione della tecnologia ha fatto tabula rasa e consegnato le chiavi di un potere assoluto ad una ristrettissima (e opaca, oscura) cerchia di “Architetti dell’Universo”. C’è un solo potere e una sola leva, quella tecnocratica.

Delineare i rapporti di forza in questa asimmetria lascia ben poche speranze; certamente non sul piano della struttura materiale. In questo caso le leve del potere restano saldamente in mano ai potentati dominanti: capitali e mezzi di produzione.

Diversamente sul piano delle strutture immateriali, come la politica e il tessuto sociale, c’è la possibilità per di noi di individuare più che nuove formule sì invece nuove combinazioni di forme. Storicamente per l’organizzazione politica (la politeia, il reggimento della città degli uomini) gli ingredienti sono sempre stati gli stessi: quelli della nota tripartizione (anzi quadripartizione) di concezione aristotelica: Monarchia, Aristocrazia, Oligarchia, Democrazia; con slittamento da una casella a quella adiacente: ad una crisi dell’una si scivola nella successiva.

Possiamo tranquillamente continuare ad usare questo schema (attualmente la crisi della democrazia occidentale – naturale? indotta? – ci ha già confermato che l’oligarchia è il sospettato numero uno).

Così se lo schema ha ancora un senso non possiamo illuderci che “restaurare” la democrazia parlamentare così come l’avevamo conosciuta possa esserci d’aiuto. E allora? Dobbiamo rinunciare alla favola bella dell’”interesse di tutti” (sottinteso al concetto di democrazia)? Niente affatto.

Cicerone ci dice nel “De re publica” che la utilitas communio (interesse di tutti) deve essere connaturata all’idea stessa di popolo, quindi insito in ogni forma di stato o di governo.

Possiamo quindi tranquillamente accingerci a ideare nuove formule o nuove combinazioni di forme politiche senza rinunciare al suddetto beneficio generale; senza scandalizzarci di una (forse) inevitabile mutazione in senso centralistico di autorità. L’interesse generale non è esclusivo della borghesia parlamentarizzata.

Va tutto ripensato senza timore reverenziale.

Più rassicurante è la proposta di una nuova formula di rapporti societari che vede nel comunitarismo (certo da approfondire, precisare, dibattere) una stimolante possibilità rigeneratrice di relazioni tra gli uomini. E la storia non manca di testimonianze di momenti comunitari, anche duraturi e fecondi.

“Non basta una mano di intonaco” ci ammonisce l’autore cui rispondiamo; e noi conveniamo convintamente: tutto necessita di un lavoro e di un’analisi lunghi e complessi.

Questo è il nostro ruolo storico sia di individui che di nuove organizzazioni che, ad esempio, attorno a Frontiere stanno nascendo.

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