Sulla longevità della Terra, gli scherzi climatici e le divertenti soluzioni.

La Terra è al settanta per cento acqua e solo il restante terraferma. Di questo trenta per cento, tranne alcune aree della Cina, dell’India e del Bangladesh, l’isola di Giava e Il Cairo, la densità abitativa è da ritenersi più rarefatta che concentrata, tanto che risulta abitata meno della metà delle superfici emerse.

Quattro i miliardi di anni di esistenza, per quanto inesatti e approssimabili, in cui si sono verificati cataclismi, sconvolgimenti e verosimili alternanze di glaciazioni, siccità, alluvioni. Anni in cui il pianeta ha resistito e superato collisioni cosmiche con corpi giganteschi. Le forze che ne determinano orbita, rivoluzione, gravità, precessioni sono filologicamente sovrumane. La stella che influisce e determina la vita e il clima, che dà il nome all’intero sistema planetario che intorno le gravita, si chiama Sole. Quella simpatica palla gialla che noi consideriamo come abbronzante e asciugatrice di panni stesi genera in un secondo una potenza di 3,9×10^26 watt, un milione di volte quello che consumano gli Stati Uniti in un anno.

Nonostante queste macro specifiche tanto stupefacenti, ci viene detto che l’uomo, negli ultimi cento anni dei quattro miliardi, sta squilibrando il clima e distruggerà il pianeta.

Assumiamo questa considerazione come certa. Davanti a un frangente così terribile, ci sarebbe da azzerare tutte le attività sorte o incrementatesi nell’ultimo secolo. Buio, immobilità, deindustrializzazione. Le tecnologie spacciate per ecologiche spostano l’utilizzo di materie ed energia da un settore ad altri tutti ancora da verificare. L’elettricità va prodotta, distribuita e stoccata. Farlo non è né facile né economico, soprattutto l’accumulo, fase dai risultati e costi tutti da migliorare. Ci si pretende elettrificabili in assenza di elettricità.

Soprattutto, che certezza abbiamo che, facendo tutto il possibile, rinunciando a ogni conquista del progresso e riducendo la popolazione in un sistema da catastrofe avvenuta, si arresti questo disastro e si possa auspicare la reversibilità verso le condizioni precedenti?

Per quel che conta, noto che le urgenze improrogabili riguardano sempre il consumatore più indistinto e remoto. Ovvero, l’utilizzo dell’automobile, dell’energia elettrica domestica, il consumo dell’acqua a uso umano, il riscaldamento dell’abitazione finanche con la legna arsa, i generi alimentari. Sarebbe opportuno, piuttosto, intervenire tempestivamente sulle reti di distribuzione di quanto sopra esposto, che appaiono spesso inefficienti e dispersive, sarebbe opportuno provvedere a una consapevole gestione del territorio, per limitare le conseguenze che fenomeni meteorologici intensi provocano su aree dissestate e disattese.

Soprattutto, andrebbe rivoltata la filiera logistica della produzione industriale. Se la delocalizzazione ha favorito economie di mercato rispetto a fattori di competitività specifici, di contro incide sull’ecosistema con le navi a lungo corso che navigano ovunque. Carrier, Knock Nevis, Post Panamax, la Emma Maersk, isole mobili di acciaio che bruciano tonnellate di bunker ogni ora. Che possono affondare, perdere il carico, spargere liquami. Poi intervengono aerei, treni, trasporto su gomma. Dal container al singolo prodotto sullo scaffale, è un continuo eliminare imballaggi e protezioni dai depositi portuali ai successivi centri di smistamento. Per non parlare della confezione al consumatore, composta di cellofanature, cartoni, spartitori, sacchetti richiudibili. Un concorso di plastiche per preservare la fragranza e l’igiene di prodotti che ne sono, spesso, del tutto privi all’origine.

E si tralascia, per escludere ogni ridondanza argomentale, di considerare le condizioni di produzione, i materiali e i processi utilizzati.

Il turismo di massa è un altro aspetto da considerare. Migliaia di aerei in volo, aeroporti enormi proporzionalmente energivori, trasporti di collegamento con la città di riferimento, che non è mai prossima al terminal. Il tutto per trasportare frotte di persone che affollano luoghi inadatti già per un decimo delle presenze. Non rilevo uno stigma e un’attenzione su tale pratica che non mi sembra affatto ecologica. Quale progresso collettivo comporta garantire a milioni di ciabattanti sudaticci di andare a colmare uno sterquilinio lontano e in esso riducendo i luoghi visitati?

Logistica internazionale e turismo di massa non saranno certamente le cause uniche e principali del collasso terrestre, ma non sono neanche menzionate tra le minacce possibili.

Tutto è deflesso sul singolo cittadino che altro non fa che vivere come stabilito altrove. Ma deve vivere, evidente, sempre un po’ di meno e spendere sempre di più per sostituire l’auto, coibentare il tetto, sigillare le finestre, smaltire a comando i suoi mucchietti di rifiuti, imbustarsi sotto vuoto spinto per non inquinare con la sola stessa esistenza.

Se siamo riusciti a compromettere l’equilibrio del globo terraqueo, così complesso, così a prova di cataclisma come dimostrato in miliardi di anni, se a nostra insaputa, con labili risultati sulla meteorologia, abbiamo alterato addirittura il clima, e la differenza tra i due è enorme e spesso confusa, dove il meteo attiene a fenomeni circostanti e prossimi, mentre il clima è il complesso di fenomeni osservabili nel lungo periodo, se siamo responsabili di questo, dovremmo assistere alla massiva disposizione di misure diffuse senza limiti di spesa, sostenuta a livelli istituzionali, dove non c’è più contabilità e ragioneria, che finanche una banca preferirà rinunciare a degli interessi piuttosto che sparire nella disintegrazione globale accertata. Si può addirittura pensare di prescindere dal denaro stesso, rivoluzionando per forza l’anatomia e la fisiologia della produzione e del consumo, immaginando un modello di sostenibilità che non sottometta la sussistenza alla moneta, che non vincoli scelte salvifiche a convenzioni quanto mai astratte e secondarie di spazio fiscale.

Se non intervenissero misure ciclopiche senza gravare su singoli indistinti, si potrebbe pensare a una straordinaria operazione commerciale e di controllo sociale. Giammai lo si penserebbe possibile dalla generazione che ha come valori fondanti i diritti universali e la pace nel mondo come istanze promosse dalle Comunità Internazionali (?). Ohibò…

Del resto, l’idea di sacrificarci noi per salvare la Terra presenta aspetti discutibili. La nostra specie è precipuamente terrestre, la si ritiene dominante nella classifica dei grandi organismi multicellulari. Perché mai dovremmo auto estinguerci in favore di un corpo celeste?

Il clima, per quanto storicamente osservabile, è in una dinamica di continue evoluzioni, alterazioni, squilibri e riequilibri, sconvolgimenti e stasi, riscaldamenti e glaciazioni. È intuibile che lo influenzino le forze orbitali suddette e la incommensurabile energia del Sole più della doccia, di una Panda in corsa e della flatulenza di una mucca al pascolo. Inoltre, in prospettiva, il Sole stesso, da Nana Gialla evolverà in Gigante Rossa, dando il ben servito alla maggior parte dell’attuale eco-sistema. Nessuno di noi contemporanei ci sarà più. A memoria del nostro tempo resteranno tracce di mascherine disperse ovunque e carcasse. Di pannelli solari e batterie fulminati ma indistruttibili, di inutili e inutilizzati veicoli e velocipedi elettrici, di edifici incappottati per presunta sostenibilità ambientale, di intricati e chilometrici grovigli di filaccioni e di dispositivi per consentire quel digitale che avrebbe dovuto risolvere il progresso ma senza energia non funzionarono. Carcasse di qualche incomprensibile opera pubblica di sovrastimati architetti, delle gallette di riso, delle protesi in silicone. Perché un tempo si inneggiò al biodegradabile e al primato della natura, ma si pretendeva di cambiare proprio la nostra, il genere, le peculiarità etniche. E si pretendeva di rimanere sempre giovani.

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