La medicina: arte scienza, tecnocrazia o burocrazia?

Non è esagerato affermato che, oggi, la medicina sia alquanto screditata, sia dal punto di vista della prassi, che da quello epistemico. Il colpo di grazia le è stato inferto dal ridicolo approccio alle vicende di questi ultimi anni, nei quali una riprovevole genìa di scadenti giullari e guitti, ha manifestato, in ogni anfratto del mondo fantasma rappresentato dai mezzi di comunicazione, la propria dabbenaggine e la propria malafede.

Tuttavia, anche prescindendo da questo mediocre vaudeville, viene, comunque, da chiedersi che cosa sia successo, nello spazio di poco più di una generazione all’attività del medico, a quella che un tempo, spesso a sproposito, era considerata perizia, missione o, per usare una parola ancora più desueta, arte?

            “Arte” è una parola oggi assai abusata, dal significato piuttosto confuso, ma tale è sempre stata considerata, nella storia, la medicina. Un’arte che era al confine tra scienza e pratica (a volte, magia), nella quale, il rapporto tra il medico e il paziente, era ritenuto importante almeno quanto la perizia diagnostica o l’abilità terapeutica, per processo di guarigione.

            Facciamo dunque qualche passo indietro per analizzare un poco la storia di questo concetto. Gli antichi distinguevano la vita attiva (che era accuratamente distinta dalla vita contemplativa) in due generi, l’agire (praxis), che era regolato dalla “prudenza”, e il “produrre” (poiesis) che era governato dall’arte[1] ,

            “Arte”, come è ovvio, deriva da ars, che è, grosso modo la traduzione, del greco teknè, che indica la modalità dell’operare. Platone enumerava, nella categoria degli “artisti”, i poeti, i pittori, i falegnami., gli scultori, i governanti e i medici. Così scriveva[2]:

Arte è invece la medicina perché indaga la natura di ciò cui essa rivolge la sua cura e la causa di ciò che fa”[3].

            Nell’ antichità romana Marco Terenzio Varrone poneva la medicina tra le arti liberali[4]. Qualche secolo dopo, tuttavia, essa venne catalogata da Maziano Capella[5] o, ancora più tardi, da Ugo da San Vittore[6], tra le arti meccaniche, forse perché, con l’andare del tempo, veniva posto maggiormente l’accento sulla componente “pratica”, rispetto a quella “epistemica”.

            Ma prima ancora di appuntare la nostra attenzione su questa evoluzione del concetto di arte medica, è necessario fare una precisazione e riconoscere un’importante differenza tra la medicina e le altre arti (che genericamente chiameremo “poietiche”).

            Lo scopo di queste ultime è quello di modificare l’ambente o gli oggetti naturali, per costruire quel “mondo umano” che, non solo rende più facile la sopravvivenza ma che costituisce la dimensione terrena degli uomini.

         L’arte medica, viceversa, non può essere propriamente considerata appartenere alla categoria della poiesis, poiché non produce nulla di manifesto. Il suo intento e il suo scopo sono quelli di modificare una condizione in atto (quella di “malattia”) per “favorirne” una diversa (quella di “salute”), ovvero, ricondurre ad un “equilibrio” un organismo, pertanto la sua pratica non si può identificare con una “produzione” (solo l’allucinato e industrialistico vocabolario della tarda modernità può parlare di “produttività” nell’ambito delle “imprese sanitarie”), inoltre è imprescindibile dalla relazione tra due individui (il medico e il paziente) e, quindi, si configura anche come praxis, un agire “politico”.

         Lo scopo dell’arte medica non è quello di modificare qualche componente del mondo naturale per trasformarlo in un manufatto “artificiale”, ma   quello di ripristinare il “naturale” stato di salute corrotto o compromesso dalla malattia. Quindi lo scopo dell’opera non è definito dalla mente dell’”artefice” (anche se lo può essere presente nella sua mente), ma “è definito dalla natura”, visto che il suo “oggetto” non è certo stato creato dalla mano dell’uomo.

         Se, secondo Aristotele, “L’arte è imitazione della natura nel suo modo di operare”[7] ovvero l’imitazione delle modalità poietiche della Natura Creatrice (Madre Natura, Natura Naturans) e non imitazione pedissequa dei prodotti della natura, così, a maggior ragione, dovrà operare l’arte medica, visto che tratta del più delicato “prodotto della natura”. E, difatti Tommaso d’Aquino dà una spiegazione assai precisa su come debba svolgersi questo operare:

 “Come infatti la natura opera la guarigione del malato alterando, smaltendo ed espellendo la materia patogena, così fa anche l’arte.

L’arte, non opera come agente principale, ma come sussidio dell’agente principale, che è il principio intrinseco, rafforzandolo e somministrandogli mezzi e aiuti che servono per raggiungere lo scopo: come fa appunto il medico.”[8]

         Pertanto l’arte medica, doveva essere praticata seguendo il criterio fondamentale che le reggeva tutte, ovvero, la “retta norma per compiere le opere” (Recta ratio facibilia”)[9], ma anche con la prudentia che reggeva ogni praxis (Recta ratio agibilia)

         Anche se queste definizioni sembrano tautologiche, esse non descrivono altro che l’appropriatezza nell’operare, ovvero, nel caso dell’ars medica la correttezza nell’agire “secondo natura” (ovvero seguendo l’anatomia, la fisiologia e le caratteristiche del paziente), e l’idoneità nel servire lo scopo che si prefigge, cioè la soddisfazione del bisogno dell’individuo malato, il ripristino della “salute”.

         Cos’è rimasto oggi di tutto ciò? Possiamo senz’altro dire che la pratica medica, come qualsiasi altra attività, non può prescindere dal contesto nel quale si trova ad esistere. Oggi questo contesto è costituito da una sorta di universo tecno-burocratico, nel quale essa si adatta, senza troppe critiche, alla Weltanschauung ed alla prassi dei tempi.

         Un tempo colui che praticava quest’arte era qualcuno che considerava l’individuo malato nella sua interezza, non singole parti del paziente o “frammenti di malattia”. Oggi, la proliferazione delle conoscenze e delle tecniche ha condotto ad un’estrema specializzazione in ogni disciplina del sapere che, se da un lato ha aumentato l’efficacia dell’agire, dall’altro ha condotto allo smarrimento della visione d’assieme.

         La disciplina medica non è più considerata un’arte ma è una sorta di metascienza, una scienza spuria che, come ogni scienza è frammentata in una miriade di discipline sempre più specifiche e minuziose, i cui ambiti sono sempre più ristretti. D’altro canto (specialmente per ciò che riguarda le discipline chirurgiche o quelle con forti componenti operative) è caratterizzata sempre più come padronanza intesa come abilità manuale, nel padroneggiare tecniche complesse.  Il risultato è che la moderna medicina si occupa soltanto di “frammenti” (patologie, organi, apparati), non riuscendo più a ad avere la visione dell’organismo come ciò che, al giorno d’oggi, si usa definire “Sistema adattativo Complesso”. Inoltre è venuta quasi completamente a cessare la relazione empatica che consente di considerare il paziente come qualcuno che vive la malattia come grave alterazione, menomazione, finanche come disintegrazione della trama della propria vita

 .

            Insomma, la medicina, da tradizionale “arte di guarire” basata sulla facoltà di giudizio riguardo al singolo paziente, sull’empatia e sulla cura, è oggi diventata “tecnica medica” e, come tale “normalizzazione” della malattia e delle terapie.

            Il medico non è più colui che pratica un’arte, che interagisce con l’individuo-paziente, ma, da un lato, è diventato un impiegato-burocrate che applica semplicemente e pedissequamente i criteri individuati dalla verità statistica[10], dalle “linee guida” e dall’organizzazione sanitaria cui appartiene (efficienza, produttività, economicità) e, dall’altro un tecnico che deve adoperare con la massima abilità possibile i mezzi messi a disposizione dall’industria.

            Inoltre, visto che il settore della cura della salute (mutatosi in terapia della malattia) è divenuto una sorta di “industria”, ad esso vengono applicati i criteri adottati  per le organizzazioni industriali: la necessità di standardizzare le prestazioni, la razionalizzazione dei processi, la produttività; ovvero tante parole e concetti vuoti che evocano soltanto l’idea che questo sia soltanto uno dei tanti “settori merceologici” strutturati per la produzione di massa, da cui è composto il nostro mundus oeconomicus.

            Il medico, divenuto operatore sanitario,come qualsiasi lavoratore che fa parte di un’organizzazione complessa, deve semplicemente svolgere la propria piccola funzione in questo incommensurabile processo. Come un operaio deve occuparsi soltanto ed esclusivamente dell’operazione che gli compete nel processo di produzione (la “catena di montaggio”), così l’operatore sanitario deve occuparsi del singolo organo, della singola patologia, del singolo esame, della singola tecnica, senza poter abbracciare con lo sguardo l’intero processo o conoscere il “prodotto finito” nella sua interezza (il paziente).

            La pratica medica consiste ormai (in massima parte) di operazioni standardizzate nelle quali vige un impersonale meccanismo di causa ed effetto che, se molto spesso è utile nel perseguire una certa efficacia terapeutica, dall’altro fa perdere di vista lo scopo principale dell’agire medico, che è il “bene” dell’individuo malato, il quale, spesso, non coincide con l’archetipico ed impersonale “bene” della scienza, della prassi o dell’organizzazione sanitaria, incarnati dall’opera del medico che svolge le cure.

            Concluderemo con le parole del filosofo neoplatonico Stefano di Alessandria, allievo di Zosimo di Panopoli, che, già nel VI secolo, sembrava prevedere i futuri sviluppi della scienza medica:

La medicina soffre di un’aporia fondamentale: la sua teoria abbraccia universali, la sua pratica ha a che fare con individui concreti”


[1] Ananda K Coomaraswami: La filosofia dell’arte medioevale e orientale. In: Il grande brivido. Adelphi., Milano. 1987, p.48. Cfr Summa teologica I-II 3,3 ad 1; II-II, 179, 2 ad 1 e 3

[2] Ananda K Coomaraswami: Figura di parola o figura di pensiero? In Op.Cit. P.16.

[3] Platone, Gorgia.

[4] Cfr. Marco Terenzio Varrone: Disciplinae

[5] Cfr. Marziano Capella: De nuptiis Mercurii et Philologiae

[6] Cfr. Ugo da San Vittore: Didascalicon

[7] Aristotele: Fisica II,2,194 a 20

[8] Tommaso d’Aquino: Summa teologica I, 117:1

[9] Summa Teologica I-II 57, 3

[10] Determinata in gran parte da studi condotti secondo i criteri della validazione di prodotti industriali-commerciali

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Truman
Truman
1 anno fa

Si potrebbe fare qualche aggiunta, perchè l’articolo dimentica quella che è la parte più creativa della pratica medica: la ricerca.
La ricerca medica ha ancora parecchio dell’originaria arte, perchè si esplica in sostanza nell’invenzione di nuove malattie. Non è fantasia né esagerazione, ma solo notizia di attualità.
E qui si potrebbe cominciare a osservare che l’aspetto sostanziale non è l’immagine pubblica della medicina, o la forma del lavoro, ma il fine di essa, il quale non è più la cura delle persone ma il profitto ad ogni costo.

lo
ciao
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