Il Fantasma dell’Impero. A Christmas Carol, il fantasma del passato, del presente e del futuro.

Il Fantasma dell’Impero.

A Christmas Carol, il fantasma del passato, del presente e del futuro.

Che l’Impero statunitense sia in difficoltà non è ipotesi né opinione. Lo ha detto Blinken il 13 settembre alla riunione del SAIS (School of Advanced International Studies) presso la John Hopkins University, annunciando chiaramente la fine della Globalizzazione.

Che gli Stati Uniti attengano al fantastico è un’altra certezza, sia come fenomeno sovrannaturale che come spettro di una vita che fu. Qualcosa che si è vista e di cui si sono sentiti gli effetti pur non esistendo, almeno per come è stata raccontata.

Sorgono raccontati da una mitologia intrigante. Un’accolita di fuggiaschi, disperati e balordi di ogni risma che in duecento anni istituisce e fonda uno Stato Federale liberandosi dal giogo inglese, massima potenza del momento, e assurge a nuova potenza mondiale sulla propulsione dell’ideologia di frontiera e della corsa all’oro. L’arte di propalare fandonie non è dunque prerogativa contemporanea.

Pensiamo piuttosto all’aristocrazia in difficoltà nel mantenere i suoi privilegi e il controllo specie sulle nuove corporazioni borghesi in crescita, alle monarchie sempre meno redditizie e sempre più esposte per guerre costose e prolungate, alla Chiesa che intravede la crisi del potere temporale e le insidie di una scienza che progredisce, ai banchieri che hanno il potere di finanziare i regni ma non di scongiurare di finire in bancarotta se non proprio decollati quando i loro sovrani non intendono pagarli. Queste tre entità apicali, spesso in conflitto reciproco, avranno considerato che “tutto doveva cambiare perché tutto restasse uguale”.

Serviva un nuovo modello sociale, uno scardinamento politico, un paradigma ideologico a misura di istanze e categorie emergenti. Nulla di meglio che farlo arrivare dal Nuovo Mondo, raccontato come frutto della determinazione e della libertà individuali.  Dall’Europa ci fu ampio sostegno, e l’idea divenne realtà specie con il concorso di Francia e Spagna.

Nella tradizione consolidata che le grandi potenze crescono sul mare, esordì questa sorprendente Repubblica Federale alla fine di un oceano, libera da minacce via terra, ircocervo del portato inglese, della massoneria in salsa francese e di una popolazione in maggioranza tedesca. Si liberarono dell’Inghilterra, ma ne assunsero la lingua e il puritanesimo, la Statua della Libertà, opportuno dono francese, affascinava con la sua maestosità evidente ma era anche icona felpata del femminino sacro, la Madonna, Iside e altri simboli di un esoterismo senza tempo pronto a ripresentarsi inedito come spontaneo moto di progresso e liberazione, ricordato nelle ripetute simbologie di piramidi, templi e nottole di Minerva, accanto all’albero di Natale, gli hamburger e gli hot dog, contributo tedesco al tutto.

La Rivoluzione nella fisica astronomica è il percorso che riporta al punto iniziale. Le rivoluzioni europee, le unità nazionali, le democrazie arrivano tutte dall’oceano per salvare i poteri consolidati del Vecchio Continente dalla decadenza e dal tracollo.

Se il fantasma del passato americano è la mitologia della nascita e per estensione quella dello Stato Nazione e delle democrazie occidentali, il fantasma del presente potrebbe essere la Globalizzazione, specie se intesa come accordo e connessione spontanea tra stati.

Dopo aver vinto le guerre interne e le due Guerre Mondiali arrivando in entrambe alla fine, l’America statunitense si ritrova dominus indiscusso delle potenze che hanno scritto la storia ecumenica. L’Europa è come si fosse suicidata consegnandosi a un vincitore con cui quasi non ha combattuto, un vincitore che ha la chiara intenzione di rimanere sul territorio, di controllarlo e di garantirsene la sottomissione. Nasce l’equilibrio perfetto di una Europa a doppio controllo, entrambi non europei, una sotto l’egida statunitense e l’altra sotto quella sovietica. Due modelli antitetici, due potenze che non possono e non vogliono sfidarsi apertamente. Due perni instabili che nella continua tensione reciproca garantiscono i famosi decenni di pace. Finché si suicida anche l’Unione Sovietica mettendo fuori gioco anche la Russia. Ecco perché gli Stati Uniti diventano Impero per mancanza di contendenti, che non sarebbero comparsi neanche dall’Asia, dove Cina e India erano prive della forza e della grammatica per essere sfidanti e il Giappone era stato stroncato con due bombe atomiche e soggiogato a dovere.

Il lavoro che il nuovo dominus svolge solerte è il controllo dei mari. Dodici flotte con dodici portaerei a sorvegliare tutti i passaggi strategici, gli stretti, i canali nei tre oceani e nel Mediterraneo. Il mare, efficiente infrastruttura gratis, è la via dei commerci internazionali in superficie e di cavi e condotti sui fondali. Snodo di ogni sorta di connessione, dall’acqua si esercita più che in passato il vero dominio internazionale.

La globalizzazione è stata quindi il dominio statunitense sui collegamenti strategici. Finché c’è stata la compattezza popolare interna, la fascinazione possibile, il dominio ha goduto anche del cosiddetto soft power dell’evanescente modello di libertà in vernice, di democrazia in senso lato, vista la partecipazione tanto indiretta all’indirizzo politico e il termine stesso che non compare nella Costituzione che si limita a parlare di Repubblica. Nonché di terra dai consumi facili e un benessere edonistico pret-a-porter. Ha giovato senz’altro al suo appeal essere compratore garantito di merci e servizi altrui, e ha giovato al dollaro diventare valuta di riserva.

L’azione militare oltre il controllo dei mari è sembrata essere, invece, spesso estemporanea, raramente riferita a obiettivi strategici definiti, dunque, a tutti gli effetti fallimentare. Dopo le guerre mondiali, le altre ingaggiate negli anni successivi non hanno portato la vittoria e il risultato annunciati. La consuetudine a voler imporsi in nome di una missione morale, a promuovere pace e democrazia a suon di bombe, a ingerire in affari altrui e creare conflitti per limitare i contrasti alla sua egemonia, hanno eroso il consenso interno e la capacità seduttiva o di moral suasion all’esterno.

Spossata da tensioni interne e da una fatica imperiale sempre meno sostenibile, l’America pare voler ritirarsi nei suoi confini. E starebbe benissimo, autosufficiente in tutto, come solo la Russia, guarda caso, potrebbe stare, negli ampi e tranquilli confini tra due oceani, un Canada affatto minaccioso e un Messico che non lo è ancora. Ma da Impero non ci si dimette. E non appare all’orizzonte lo sfidante che determini il vulnus in mare. La Marina cinese ha mezzi e uomini, ma ancora non riescono a pensare il mare, che per loro resta il punto in cui finisce la terra e, tra l’altro, al momento non hanno spazio per controllare neppure il loro. L’America imperiale perde capacità egemonica ma resta sempre la prima potenza.

Per questo il fantasma del futuro può essere proprio la sua fine. Se ne parla, si annuncia, si augura, da Spengler a Fukuyama è un intenso teorizzare di tramonti e storie finite, ma le reali forze antagoniste si annunciano, proclamano con prudenza, menano scappellotti al buio mai compiutamente efficaci. La fine dell’America e della sua strapotenza è evidente ma intoccabile, incorporea.

Si parla con baldanza dei Brics. Sono solo un’idea antiamericana non istituita, senza rappresentanza e senza un vero perno di aggregazione. Che poi Brasile e India siano antiamericani andrebbe verificato, essendo quest’ultima membro ufficiale della cooperazione di sicurezza dell’Indopacifico denominata Quad, insieme con Stati Uniti stessi, Giappone e Australia.

Noi europei, immaginando la minore pressione della NATO e dell’Unione Europea, dobbiamo prepararci a diversi scenari pieni di imprevisti.

La classe politica è stata esautorata e ridotta a mera esecutrice amministrativa.

La visione sociale è appiattita su istanze minuscole o effimere come i diritti civili, il messianesimo tecnologico e l’ambientalismo pretestuoso.

Il comparto industriale ragiona esclusivamente di ottimizzazione dei processi e contenimento dei costi.

La finanza è avvitata su sé stessa, scollegata dalla realtà, che gioca i suoi valori residuali e fittizi come fiches a un tavolo da gioco finché il gioco va avanti.

L’unico comparto ancora funzionante è quello militare, acefalo e sotto stretta sorveglianza atlantica. Qualora si scoprisse senza controllo, come si gestirebbe?

Il progetto comunitario, opportunamente privo di tempi e obiettivi, ha svuotato l’azione governativa e limitato i livelli attuativi. Ha preso il sopravvento l’apparato burocratico, allineato ai vertici unionisti esterni che gli consentono di inebriarsi con l’indipendenza dalla politica senza doversi assumere l’impegno di decidere. Tutto questo fa presagire la futura difficoltà nella gestione di territori ristretti.

Le attuali estensioni nazionali andranno così comprese e verificate, in quanto esito di processi aprioristici e poco accurati, forse mai compiutisi del tutto, viste le tensioni interne che agiscono in molti stati del continente.

L’Italia è oggetto di ambizioni francesi a nord ovest e tedesche a nord est. L’Africa scarica su di noi non solo le dinamiche migratorie, ma arriveranno anche gli effetti delle crescenti pulsioni di autonomia specie da Francia e Inghilterra, che mai, per inciso, rinuncerebbe alla Sicilia, snodo strategico del Mediterraneo, termine di cavi e condutture sottomarine. Ma il nostro mare è conteso anche dall’Algeria, in forte crescita marinara, e dalla Turchia che abbaia più che mordere, riuscendo a destare interesse su molteplici fronti. Di sicuro, noi santi e poeti dobbiamo esprimere con certezza la nostra vocazione di navigatori riconoscendoci paese di mare senza pulsioni mitteleuropee. E ricordarci che da importatori di materie prime ed esportatori di lavorati, se dovessero chiudere Gibilterra e Suez saremmo tagliati fuori, e che, però, i passaggi obbligati nel Mediterraneo sono nostri.

Dunque, l’Europa e l’Occidente non saranno più il faro del mondo, ma nemmeno lumino da camposanto. Il crollo del mito porta con sé il mito del crollo senza necessariamente assistere al primo pur celebrando l’altro. Ogni portato ideologico e di supremazia morale, per quanto indifferenti allo scontro sui fatti come ogni astrazione in purezza, potranno crollare sotto l’emergenza o una ritrovata misura di consapevolezza. Saremo costretti a occuparci di noi stessi e dovremo considerare i fattori strategici che impongono scelte diversificate e singolari, dimenticate in nome del benessere effimero e del pacifismo di maniera. Ma la strategia dimenticata nel sonno della sconfitta per dimenticare la sconfitta stessa, tornerà in forma di urgenza sull’ultima spiaggia dell’estrema ratio. Il fantasma dell’Impero potrebbe svelare quanto sia stato un impero fantasma. E se non correggeremo la tendenza demografica che ci vede sempre meno e sempre più vecchi, i fantasmi saremo noi.

Subscribe
Notificami
guest
0 Commenti
Inline Feedbacks
View all comments
lo
ciao
0
Esponi la tua opinione.x