Il ciclo di 110 anni: gli dei se ne sono andati

Dal 31 maggio del 17 a.C. per tre giorni a Roma si celebrarono i Ludi Saeculares.

Li aveva prescritti secoli prima la Sibilla Cumana, e dovevano tenersi nell’arco più esteso possibile della vita di un uomo, 110 anni appunto. Si trattava di un ciclo, un tempo ciclico – una occasionalità non una scadenza -: non era detto che si sarebbe verificato, bisognava meritarselo, la peculiarità del ciclo temporale era ritenuta dagli antichi plausibile e naturale (il tempo lineare tanto caro a noi moderni non era ritenuto familiare).

Oggi potremmo paragonarlo ad un set-up di borsa (e non è l’unica similarità con la borsa, anche il ciclo di 110 anni era ritenuto da W.D. Gann, il guru del trading, il più lungo tra quelli esistenti): sono momenti spartiacque che possono indirizzare gli eventi da una parte o dall’altra, in direzione opposta.

Ma gli antichi avvolgevano questo “momento” (saeculum sta per generazione ma intesa in senso estensivo) di una atmosfera destinale, di un fascino emozionante e prezioso, di un’aura di meravigliosa unicità: nella vita di un uomo, una e una sola volta poteva capitare di assistere ai ludi della Sibilla, mai prima e mai dopo… Come detto bisogna meritarselo: nel 17 i trascorsi recenti delle interminabili guerre civili avevano trascinato sangue e morte, spopolamento e carestie, sventura e alcuna speranza nel futuro.

Ma questo non era il peccato (lo scelus), il peccato era nell’aver dimenticato il proprio “nome segreto”, la propria peculiarità, la propria anima; le sciagure intestine furono invece la punizione.

Augusto era consapevole di ciò: non si poteva più ricostruire ma solo ri-fondare: la pace che era riuscito a ristabilire era il segno del “patto” (pace viene da paciscor, fare patti) rinnovato con la divinità.

Non c’è Stato, non c’è popolo senza un patto con i propri dei (anche Robespierre si arrese a ciò, escogitando il suo “essere supremo”).

Il compimento del ciclo di 110 anni e il suo superamento proiettato verso il successivo doveva essere meritato, guadagnato con le preghiere e con il valore: Augusto (dovremmo chiamarlo più correttamente “L’Augusto”) aveva ottenuto questo riconoscimento riuscendo nei fatti, storicamente a ripristinare la Pace (senza successo non si può dimostrare il consenso degli dei). Il ciclo poteva invocarsi (non era concesso “superomisticamente” determinarlo); poteva essere implorato: a ciò erano indirizzate le preghiere. In un palpito corale di sacralità uniti Principe e popolo commossi (perché consapevoli della singolarità dell’unicum), dalle pendici dell’Aventino rivolti verso il cocuzzolo dei primi pastori, fanciulli e fanciulle impuberi (angelici oggi diremmo) cantarono l’Inno di Orazio: “Sole fecondo e tu Diana…”

Si chiamano gli dei del giorno e della notte, ma anche – con la stessa gratitudine – quelli della nascita e della morte: (oggi siamo colpiti da questa esplicita citazione della dea dimenticata della favola moderna, cfr. La bella addormentata); nulla è nefasto, la morte è ciclo di vita, fine e resurrezione, la nascita è fecondità, la progenie è benedizione.

Ma chi ha familiarità coi grafici di borsa sa bene che il “trend” è essenzialmente “memoria”: e i celebranti dei saeculares lo sapevano bene! Se si vuole proiettare il ciclo verso il compimento successivo, se si vuole protrarre il trend si deve conservare la Memoria (“moribus antiquis res stat romana virisque” recita Ennio: la potenza romana si fonda sulla tradizione…)

E l’inno richiama alla memoria tutti i valori, gli eroi, le gesta nobili della stirpe.

Le preghiere ripetute giorno e notte… in un’occasione unica.

Oggi sappiamo che tutto ciò è perduto. Perduto per sempre.

Il tempo lineare ha soppiantato la ciclicità, conseguentemente – per il processo unidirezionale – il passato viene via via squalificato. Così, le tendenze, private di memoria, si appiattiscono in un una fuga senza direzione.

Gli dei se ne sono andati…

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