Et vide secundum naturam, de qua regenerantur corpora in visceribus terrae. Et hoc imaginare per veram imaginationem et non phantasticam.
Rosarium Philosophorum
Gli esseri umani, che si aggirano in questo secolo stolto, sono cullati dall’illusione di vivere una vita propria in un cosmo reale. In realtà, vengono vissuti da vite surrogate, in un mondo posticcio, che viene ricreato ogni momento, e che si dispiega loro attorno, li ricopre, li permea e li imbibisce, come liquido su un substrato assorbente. Miriadi di mondi chimerici si manifestano, si autorappresentano, prendono corpo e realtà in un’incessante parodia della danza di Śiva che rende irreale il reale e reale l’irreale.
In quest’illusione di mondo, la tangibilità e la concretezza sono assai meno reali dei suoni e delle immagini che si riverberano nella rappresentazione che si intrufola nella mente attraverso la vista e l’udito, creando le emozioni surrogate delle quali la modernità si nutre.
Vista e udito sono sensi “remoti”, possono percepire ciò che non è tangibile, sono proni all’inganno che sempre si cela nella rappresentazione del reale.
Per discernere la realtà dalla sua maschera, è necessario affidarsi ai sensi più “intimi”: gusto, tatto e olfatto, che necessitano di realtà e materia per poter percepire, di oggetti realmente esistenti, di molecole, di sapori.
“Sapore” e “sapere” condividono la stessa origine: il latino “sapio” è “assaporare” ma anche “avere sapore”. “Sappiamo” qualcosa se ne percepiamo il sapore, perché la facoltà di assaporare, il gusto, è il più intimo dei sensi, quello che può manifestarsi solo se introiettiamo porzioni di mondo attraverso le fauci.
Il tatto rileva la consistenza delle cose che tocchiamo, che prendiamo, da cui “apprendere”: il processo di apprensione consente di “impossessarsi” di porzioni di mondo e di afferrarne, con la mente, i contorni, la consistenza, le asperità invisibili.
L’olfatto rileva la presenza delle molecole volatili promanate dalle cose, anche quando queste siano celate alla vista. Un cane non potrà mai essere ingannato da un’immagine, da una sequenza di fotogrammi, ne percepirà immantinente l’immaterialità, l’assenza di odore.
Vista e udito possono percepire anche le cose non tangibili, non ci aiutano in alcun modo a distinguere il reale dalla rappresentazione, il mondo dei fatti da quello dei fattoidi: per essi non vi è differenza alcuna.
Non è dato dimostrare una differenza tra la percezione della realtà e un’allucinazione collettiva costante e durevole: sono infatti la stessa cosa¹.
Il termine “fattoide” fu coniato da Norman Mailer per significare quei “fatti che non esistono prima di apparire sui mezzi di comunicazione di massa, creazioni che non possono essere definite come menzogne ma come un prodotto per manipolare le emozioni della “maggioranza silenziosa”².
Per dirlo in altre parole: il fattoide è la forma che assume un fatto nel mondo fantasma della rappresentazione, forma che è sempre affatto diversa da quella che si manifesta nel mondo fattuale, dato che la rappresentazione è sempre informata dalla visione del mondo di colui che la mette in scena.
È sempre l’occhio dell’osservatore che trasceglie gli elementi da mostrare e, ancora prima, gli elementi che si imprimono, attraverso lo sguardo, sulla matrice della mente, che sono quelli dai quali questa è proclive ad essere impressionata, quelli che vengono filtrati dai pregiudizi che la informano.
Gli antichi mettevano in guardia dal prestare soverchia fede in quella che è uso comune definire “realtà”, perché la realtà è un’immagine fugace, che svanisce nell’istante stesso in cui si squaderna innanzi ai nostri occhi, persistendone solo l’immagine conservata dalla mente.
Il destino dei fatti è sempre quello di diventare fattoidi: il racconto, la rappresentazione, rimpiazza immediatamente gli eventi ed i fenomeni, che si dileguano appena si manifestano, subitaneamente inghiottiti dal fluire del tempo. Il presente non è uno stato, ma solamente un flusso e, così, i fatti sopravvivono solo come ricordi, ovvero, come rappresentazioni, figure elaborate dalla mente.
La realtà è sempre Maya, velo dipinto e filtrato dalla rete dei nostri pregiudizi che si sovrappongono alla cogenza del mondo, all’evidenza dei fatti, come un vestito che ne copre la nudità.
È questo un sogno? O sono sotto il giogo dell’illusione? Sicuramente questa realtà in cui mi trovo deve essere il prodotto della mia immaginazione. Che tipo di universo è questo in cui mi scopro esistere?³.
Questo strano universo, che si proietta in Maya, non è altro che un caos adornato4 d’intelligibilità dallo sguardo della mente, che lo riveste di significato, di coerenza, di ratio, per riconoscere il “sapore” del mondo.
Osserviamo oggetti e fenomeni: un assieme sparso di percezioni che vengono raccolte (legein, da cui logos), ossia legate e condensate attraverso una trama di archetipi: modelli e matrici che “adornano” il caos delle impressioni, edificando quella che appare come figura coerente, il cosmo; ovvero la forma che assume il reale quando viene distillata dal filtro degli archetipi dominanti che informano il pensiero.
L’”essere” è costituito dalle immagini e dai suoni sostanziati dagli archetipi, che assegnano alle cose il loro posto nel mondo, il loro significato, che è ciò che le rende reali. Ma, invero, il loro significato è sempre il nostro significato, perché ciò che, nella mente, non ne possiede alcuno, non può inverarsi, non ha realtà. E ciò che è irreale si disperde nell’oblio: non si imprime nella memoria e, quindi, è escluso dal reame del pensiero.
Se la realtà, in fondo, è illusione, nella modernità si sovrappongono ad essa miriadi di realtà-fantasma dal carattere assai più illusorio dell’illusione ontologica primaria. Un’infinità di fattoidi viene fecondata dalle moderne caricature degli archetipi, in una giostra di significanti, simboli, metonimie, per dar vita ad una sinistra parodia di mondo.
Si riveste di regalità d’accatto l’ultimo figurante, che si è deciso di elevare al rango di sovrano; si ammanta di autorità spirituale l’ultimo burattino dedito a propalare una superstizione scientifica, politica, o economica.
Un intero corpus mitologico viene confezionato per offrire un culto al popolo che scalpita, di fronte all’etimasia dei nostri tempi. Il trono è vuoto, non perchè in attesa dell’avvento di Cristo, ma perché il sovrano ha ceduto il posto ad un archetipo invisibile, quello della spietata grazia calvinista, col quale si legittima la raison d’Ètat.
Quest’archetipo miserello assume, invero, sembianze diverse, a seconda del momento: fino a poc’anzi aveva il volto della mano invisibile del mercato, ora appare con le fattezze del morbo pandemico, che assume la forma della vita stessa alla quale si deve rinunciare, non per la vita eterna, ma per una più lunga sopravivenza della carne.
D’altra parte, questo non può non essere l’esito finale della fiaba della modernità e del mito del progresso, nei quali la reductio ad materiam doveva, giocoforza, condurre alla riduzione della vita alle mere funzioni cellulari, così come la reductio ad mathematicam non poteva concludersi altrimenti che con la dematerializzazione del mondo nella sua sineddoche astratta: la rappresentazione di un fantasma di mondo, costituito dall’assieme di fattoidi che, quotidianamente, vengono confezionati dalle fabbriche di fantasmi che plasmano l’ontologia virtuale del nostro universo “civilizzato”. Così ne scriveva Louis Mumford:
Questo mondo metropolitano, dunque, è un mondo dove la carne e il sangue sono meno reali della carta, dell’inchiostro, della celluloide. È un mondo nel quale grandi masse di persone, incapaci di aver qualunque esperienza diretta di modi di vivere più soddisfacenti, vivono in maniera, come spettatori, osservatori passivi. […] Vivendo così, anno dopo anno, una vita di seconda mano, remota dalla natura che è fuori di essa, e non meno distanti dalla loro natura interiore, diventano vittime di fantasmi, paure, ossessioni5.
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Come ben sapeva Giordano Bruno (De vinculis in genere), l’uomo è materia infinitamente plasmabile per chi riesce a confezionare le immagini e le parole d’ordine che sostanziano la fede nel mondoide, quella grottesca rappresentazione di mondo nella quale vivono gli uomini dei nostri tempi.
Non esiste gabbia più solida dell’illusione.
[2] Norman Mailer, Marilyn, a Biography, Polaris Communications Inc. 2011, p.11
[3] Matsya Purana CLXVII: 13-25
[4] “Adorno”, in greco è “kosmeo”
[5] L. Mumford, The Culture of Cities, Routledge/Thommes Press, London 1997, p. 258