DEL   LAVORO

brevissimo saggio

La nostra Costituzione esordisce con la indicazione del lavoro come fondamento delle nostre istituzioni. Sì ma che significa?

Cerchiamo di far luce.

1.    Lavoro: vicissitudini di un vocabolo

Dal latino labor che significa: fatica, sforzo. Oggi il significante[1] letterale indica attività, occupazione; in latino per quest’ultimo significato attuale si usava il termine negotium. Per recuperare il primitivo significato di  sforzo oggi  bisogna ricorrere al significato  di  altri significanti delle lingue romanze o dei dialetti: il francese travail (travaglio, pena) , lo spagnolo trabajo (identico significato),  il dialetto napoletano fatecà (andare a faticare per “andare a lavorare”); ma è successo qualcosa di curioso: il significato di  labor (la sua connotazione penosa) è stato conservato ma è stato trasferito integralmente a significanti/ lemmi del tutto nuovi (travaglio, fatica), come se lo sforzo per antonomasia (quello del labor) sia proprio SOLO dell’attività occupazionale. Un integralismo pessimistico. E ce ne sarebbe di ben donde…

2.    Fortuna e disavventure di un concetto

La Bibbia (Genesi, 3) «col sudore della tua fronte mangerai il pane» fa calare una condanna severa. L’età classica conferma questo disvalore: sia Aristotele che Senofonte disprezzavano il lavoro (manuale) e i Romani colti elaborarono un concetto complesso con Cicerone e poi con Seneca: il primo nel De Oratore (I,1-2) formula la famosa espressione “otium cum dignitate” vale a dire un ritiro appartato per elaborare idee, testi, dialoghi, degno comunque dell’apprezzamento civico (dignitas). Seneca si muove nella distinzione tra otium (vita contemplativa) e negotium (attività) e dichiara (nel De otio e nel De brevitate vitae) che nel ritiro meditativo il sapiens giova realmente alla comunità anche politica.

Una sostanziale riconferma del primato della vita contemplativa su quella attiva è espressa nel Vangelo (Lc,10,41) «Tu ti preoccupi di molte cose ma una sola è la cosa di cui c’è bisogno. Maria si è scelta la parte migliore» dice Gesù a Marta. Il Cristianesimo tuttavia riequilibra la posizione con Paolo[2] (1); e Agostino e Tommaso d’Aquino ritengono il lavoro espiazione ed elevazione morale; ma è con S. Benedetto che per la prima volta si opera una sintesi sia concettuale che pratica: col suo concentratissimo precetto ora et labora.

3.    Bi-polarità del concetto

Abbiamo così visto il divaricarsi su due poli opposti di valore e disvalore del concetto di lavoro: pena, condanna, fatica ingrata da una parte e espiazione, elevazione, catarsi dall’altra.

Una vera sintesi è stata, dicevamo, attuata dal monachesimo benedettino: il lavoro dei confratelli è -oltre che fonte di sussistenza- una preghiera, un’offerta devota, un sacrificio spirituale; così come, analogamente, “orando” i monaci svolgono una funzione «sono funzionari. L’Opus dei, il lavoro per Dio, incombe su di loro. Consiste nel pronunciare, in nome di tutti gli altri uomini, in nome del popolo intero, le parole della preghiera, senza interruzioni, giorno dopo giorno, ora dopo ora, nel cuore della notte, quando scendono nel dormitorio per lanciare la prima implorazione nel profondo delle tenebre e del silenzio […] lanciando contro gli eserciti satanici, per sbaragliarli, la più efficace delle armi difensive: le parole della preghiera.»[3]

Successivamente, giunti alla Riforma Protestante, rileviamo anche in Calvino come il lavoro divenga uno strumento per una ascesi (la discussa etica del lavoro calvinista) ma per una “ascesi mondana” e per di più con una estremizzazione che dichiara lo stesso guadagno derivato dal lavoro «come predestinazione dell’eletto da parte di Dio».[4]

Si deve arrivare a Marx per rivalutare totalmente il lavoro concreto e materiale ma solo se declinato nell’accezione di valore d’uso (contrapposto al valore di scambio proprio del capitale) -cioè conforme allo sviluppo umano-:  solo in tal modo esso diviene un’attività finalizzata alla realizzazione dell’uomo.

La dialettica benedettina viene capovolta ma -a veder bene- non negata.

La bi-polarità viene così superata?  Non possiamo affermarlo, né sarebbe lecito aspettarselo se cogliamo alcune riflessioni significative, alcune proprio del periodo tra ‘800 e ‘900.

In Cuore di tenebre,  J. Conrad  ci offre la scena incongrua e simbolica  del contabile che, in pieno caos della polverosa  stazione coloniale, in un abito candido e inappuntabile passava le giornate al suo minuzioso lavoro di controllo dei registri: quel momento -sospeso e paradossale- era però per l’io-narrante  (Marlow) un rifugio sicuro, una” concentrazione di senso”, un  «riparo da  un caos tumultuoso, da forze centrifughe e dislocanti ,cui si può sfuggire solo calandosi nel lavoro assorbente, esclusivo…Ultimo baluardo di un universo in frantumi»[5]. Ma è solo un simbolo, un pietoso espediente terapeutico. Infatti in tutta l’opera si diffonde l’amaro giudizio che separa la disincantata realtà del lavoro in ottica capitalistica -di cui il colonialismo è propaggine- tutta spreco, insensatezza e interminabili rinvii (se ne è parlato in Frontiere.me nell’articolo Lo Scialo) rispetto alla positività di un ‘attività corale, concreta e propositiva.

4.    Entra in gioco la tecnologia

E’ con la Rivoluzione Industriale e con la diffusione delle macchine che era avvenuto un salto di qualità (o un “giro di vite” se si preferisce). Con l’esplosione della produttività ciò che richiedeva giorni di lavoro individuali si riduce all’ordine di minuti; oggi addirittura l’automazione può procedere per lunghe fasi autonomamente. Questo innegabile vantaggio (non disconosciuto nemmeno dai Luddisti che distruggevano  i telai solo come stratagemma di contestazione) rimaneva e rimane appannaggio di una sola categoria: l’egoismo di classe infatti, al posto di ridurre i carichi per tutta la popolazione lavorativa -specie  quelli gravosi-, con una diseguale distribuzione dei benefici rende la tecnica una condanna ulteriore ( e lo smart-working ne è la indiretta  dimostrazione): non è forse vero che ancora oggi ( epoca del trionfo delle “tecnologiche sorti”) la durata della giornata lavorativa è tornata ad essere, per moltissimi, esorbitante? (nel medioevo i contadini avevano di gran lunga molti più giorni di festa).

Non è utopico (se non per la volontà elitaria) immaginare una realtà lavorativa con molte meno ore e per molti meno anni nell’arco della vita. Immaginare, appunto.

All’estremistica domanda “ma è proprio indispensabile lavorare?” si può senza sensi di colpa rispondere: “solo in parte”. Più senso avrebbe la successiva questione: e che cosa si farebbe in tutto il tempo liberato?

5.     Lavoro interno e lavoro esterno

Questa formula sorta negli anni ’90, in ambito socio-psicologico particolarmente attivo nella formazione aziendale, illustrava il più recente tentativo di sintesi, stavolta però tutto chiuso nell’orizzonte dell’ottimizzazione manageriale. Certo si investigava il piacere di lavorare interrogandone tutte le dinamiche volte alla soddisfazione e al superamento della frustrazione, alla mobilitazione il più possibile delle risorse personali in termini di talenti e di attitudini spontanee.

Così come si recuperava ai fini della motivazione anche il materiale più trascurato come i simboli, l’estetica, il mito e si privilegiava la personale vocazione quanto all’allocazione della risorsa: ma sempre con l’unico fine di far lavorare meglio per rendere di più. D’altra parte non esiste forse una branca della clinica che si chiama terapia occupazionale? Anche i termini evolvono sull’asse eufemistico-aziendalistico: occupazione, inoccupazione, disoccupazione. Ma il fine è e rimane circoscritto.

Noi più correttamente diremo che il lavoro interno è l’impegno individuale e interiore nel prendere coscienza di tutte le parti di sé che riescono ad attribuire significato alle cose e alle esperienze, che riescono a cogliere i possibili nessi che riconducono l’esperienza personale ad un senso universale: etico ed estetico insieme.

Ecco che ci ricolleghiamo alla domanda finale di punto 4: il tempo liberato verrebbe così impiegato a realizzare le proprie peculiarità in termini espressivi, comunicativi, affettivi.

Ma servono dei fini.

6.    Qual è il fine del lavoro?

A ciò non risponde la nostra Costituzione: il suo articolo 1 dichiara il lavoro fondamentale ma non dice perché. Non si fanno riferimenti a finalità, a scopi e piani superiori; senza una correlazione ad un sistema valoriale l’homo faber si restringe in un ambito asfittico e sterile, in un soliloquio sempre esposto all’orgoglio e al venir piegato di leopardiana memoria[6]. Il silenzio degli autori della “Carta” (ma non solo di essi bensì soprattutto degli intellettuali) sulla distinzione tra fine e mezzi ci ha lasciato indifesi di fronte al riflusso di strumentalizzazioni ed egoismi, di manipolazioni e inerzie.

Il lavoro è per la vita e non la vita per il lavoro[7].

Il presente scritto auspica l’inizio di momenti di approfondimento e discussione su un tema così vitale per la “comunità solidale dello sforzo umano”[8].


[1] secondo l’accezione di Saussure è un “discreto ritagliato in un continuum fonico acustico”, più semplicemente la veste esteriore, la forma, il suono di una parola. Distinta da significato che è il contenuto.

[2] «chi non lavora non mangi» il dettato paolino.

[3] Duby,G., L’Europa nel medioevo, Laterza, 1991

[4] Alla voce “Lavoro” nel Dizionario delle idee, Sansoni, 1975 

[5] Cuore di tenebre, prefazione di Giovanni Cianci, Mondadori, 1990

[6] Leopardi, G., La Ginestra, vv.307 e 310: «Ma non piegato insino allora indarno […] ma non eretto/con forsennato orgoglio inver le stelle».

[7] Gesù in Lc 12,22, «Perciò vi dico: Non siate in ansia per la vostra vita di che mangerete, né per il vostro corpo di che vi vestirete. La vita vale più del nutrimento e il corpo più del vestito…»

[8] Espressione del mio maestro A. Roncaglia in Antologia delle letterature d’oc e d’oil, p.206.

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Claudio
Claudio
1 anno fa

Sono felice che finalmente qualcuno ponga in termini diversi dal solito il “problema” del lavoro.
Non ho sufficiente conoscenze e cultura per cogliere tutte le vostre citazioni, ma per me il lavoro è sempre stato una grossa schiavitù, per questo appena possibile (circa 20 anni fà) ho iniziato a lavorare part-time, 3 giorni alla settimana e lo stesso ha fatto mia moglie (lo so, siamo stati dei privilegiati), senza pormi il problema della pensione e dei soldi, che comunque erano più che sufficienti per le esigenze della nostra famiglia. La maggior parte del tempo libero l’abbiamo dedicato a tirar su una figlia cercando di non omologarla alle scelte mainstream. Ho avuto ovviamente anche molto tempo per leggere e informarmi al di fuori dei canali ufficiali e forse per questo sono presto diventato quello che poi è stato definito un complottista.
A parte la mia storia personale volevo chiedere un vostro parere sul tema del lavoro per come lo tratta Steiner (quindi reddito di esistenza o come lo volete chiamare, tassazione della moneta e via dicendo) per cui, mi pare, il lavoro diverrebbe una occupazione volontaria. Questo anche alla luce della proposta di Nicolò Bellia sull’Antropocrazia, le cui idee sono oggi ben portate avanti da Stefano Freddo (“Padre perdonaci” Fior di pesco edizioni), che però mi pare marginalizzato e inascoltato, ma che a mio avviso tratta in maniera esaustiva il problema del lavoro alla luce del reddito di esistenza e della tassazione della moneta, date che le cose sono strettamente collegate.
Grazie
Claudio

Perazzetti
Perazzetti
1 anno fa

I “miei” due centesimi.
Sottoutilizzo della forza lavoro.

Tratto da L’economia dell’età della pietra di Marshall Salhins.

https://mega.nz/file/YUdQjZwB#DqrqEpGuxPKSixhtcwughbKaDFZ93G9bPzKtw2cj5FA

Truman
Truman
1 anno fa
Reply to  Perazzetti

Letto. Interessante. Grazie.

Truman
Truman
1 anno fa

Sul lavoro mi è rimasto impresso il testo “L’economia imperfetta” di Nino Galloni, forse perchè sono stato un po’ influenzato dalla lettura che ne dà Fabio Conditi: la ricchezza di una nazione sta nelle capacità del suo popolo, tramite un sistema politico che sia in grado di tirar fuori il loro impegno e i loro meriti, supportato da una quantità di moneta adeguata a remunerare l’impegno individuale.
Ho ripreso in mano il libro e non ho trovato un’affermazione così esplicita, eppure essa resta implicita, appena sotto traccia in tutto il libro; nel raccontare la storia economica d’Italia negli ultimi decenni, Galloni è sempre preoccupato della piena occupazione, della giusta disponibilità di moneta, di una politica che tiri fuori il meglio dalle persone. In una visione che riprende il riformismo democristiano del dopoguerra, scansando gli estremi comunisti e liberisti, Galloni fa capire come la moneta può essere al servizio della nazione supportando il lavoro, senza con ciò creare pericolosa inflazione (un po’ di inflazione fa bene, serve a desacralizzare quel feticico che chiamiamo denaro). In ciò Galloni mi sembra rispondere a quello che era il dubbio di Domenico De Simone, teorico delle monete complementari: la giusta quantità di moneta è quella capace di remunerare il lavoro.
E allora neanche il lavoro deve diventare un feticcio, ma pragmaticamente nel primo aricolo della legge fondamentale ci può stare. Anche se io avrei gradito un articolo 2 nel quale venisse garantito il diritto all’ozio, sia come preghiera (“ora et labora”, lo spiegava bene Pallante) sia come diritto a un ozio non retribuito, appunto per chiarire che il lavoro non può essere un feticcio, artefatto umano che diventa oggetto di culto.

lo
ciao
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