STRATIGRAFIE DELL’USURA 2 

Torno sull’argomento dopo averlo toccato (https://frontiere.me/breve-stratigrafia-dellusura-o-de-te-fabula-narratur/) e l’interesse che mi spinge a replicare è dato dai tempi che viviamo in cui è esplosa platealmente la contraddizione tra:  

-la finanza 

– l’economia reale. 

Dove la prima crea denaro dal denaro all’infinito e la seconda produce beni tangibili secondo quella che Pier Paolo Dal Monte chiama la “soddisfazione della termodinamica”. 

Indaghiamo pertanto il più possibile i momenti in cui storicamente l’”usura” (chiameremo così la modalità del primo tipo) veniva contenuta o domata rispetto a quelli in cui torna prepotentemente ad affermarsi. 

Sì, va detto anzitutto che in passato sono esistiti periodi della vita dell’uomo (fino a vere civiltà) in cui se ne fece (quasi) a meno. 

In questa occasione merita di rientrare nel campo di indagine il periodo feudale-normanno (situabile nella Francia settentrionale e orientale nel XII sec.) nella particolarissima eppure rappresentativa testimonianza di quell’élite incarnata dai Templari. La loro ascesa e la loro parabola offrono eloquenti punti di osservazione per lo scandaglio della storia dell’usura. 

Chi furono i Templari?  Sorti nel 1118 furono né solo monaci né solo cavalieri ma Monaci-Cavalieri. Ricostruiamo il contesto culturale, spirituale, sociale in cui nacquero. 

La riforma di Gregorio VII intraprende un ambizioso programma per moralizzare la Chiesa (contro la simonia e il concubinato dei preti) e dare uno status clericale all’ordine dei monaci (a modello di eccellenza dell’abbazia di Cluny). 

“Nel 1139 papa Innocenzo II pubblica la bolla Omne datum optimum. Con essa per la prima volta un testo pontificio parla esplicitamente della missione dei templari: 

«La natura vi ha creati figli della collera e seguaci dei piaceri del mondo; ma ecco che, per la grazia che spira su di voi…avete bandito le pompe mondane e la proprietà personale… Perché sia evidente che bisogna considerarvi effettivamente come soldati di Cristo…»”[1]

In effetti quando si parla di bandire le pompe mondane lo si dice a buon motivo; l’estrazione di questi personaggi (all’inizio esclusivamente, in seguito maggioritariamente) era di origine aristocratica e feudale. La vita dei “conti” era sfarzosa, i loro abiti preziosi (pellicce, drappi ricamati e anche sete!), la loro tavola sempre imbandita con carne e vino (!), tutto generosamente donato, al limite dell’estrema prodigalità, alla propria casata (la mesnie, masnada), ai cavalieri e vassalli che avevano loro giurato fedeltà in armi. 

 Ma; c’è un ma. Tutto deve venire rimesso in discussione, il compito di scortare i pellegrini in Terrasanta non era una mera operazione di retroguardia. Innanzi tutto «Il pellegrinaggio penitenziale è sintomo di una nuova spiritualità, nata col monachesimo cluniacense ed è sovente “opera di espiazione collettiva”»[2]. Ma anche i milites devono essere rinati a nuova vita; il priore della Grand-Chartreuse indirizzava al fondatore dei Templari (Ugo di Payns) tali incitazioni «”Noi non sapremmo   davvero esortarvi alle guerre materiali…E’ vano in realtà attaccare i nemici esterni, se non si dominano prima quelli interni” e…cita l’epistola agli Efesini: “Non è infatti contro avversari in carne e ossa che dobbiamo lottare…ma contro gli spiriti del male…i demoni”»[3]  

E S.Bernardo rivolto ai Templari aggiunge una fondamentale riflessione, una riflessione sulla morte «Non soltanto il cavaliere non deve temerla, ma deve desiderarla, perché la sua salvezza è ancora più certa se è ucciso che non se uccide… La vera essenza dell’idea di crociata: vi era chi intraprendeva il Santo Viaggio senza speranza di ritorno, ma solo per vedere Gerusalemme, cioè il sepolcro di Cristo, e morire»[4].  

Ecco come si spiega il poderoso fenomeno che vede gran signori rinunciare, cedere, spogliarsi dei beni terreni, dei simboli della loro casta e della loro condizione privilegiata (“così abbandono vaio e grisetto e zibellino” canta il gran signore Guglielmo IX d’Aquitania al termine della vita): una condizione il più possibile esibita come splendida. “Rallegrati -incoraggia S.Bernardo nel De Laude- coraggioso atleta, se sopravvivi e se vinci nel Signore; rallegrati e sii glorificato ancor più se muori e raggiungi il Signore!”. 

Non stupisce a questo punto se la Regola dei Cavalieri del Tempio imponeva il voto di povertà individuale. «Ugo cedette i suoi beni di Payns; Goffredo di Saint-Omer diede la grande dimora che possedeva a Ypres, nelle Fiandre; Pagano di Montdidier diede la sua signoria di Fontaine. Sulle loro orme…l’arcivescovo di Sens, Enrico Sanglier, donò due case…I conti delle Fiandre, Guglielmo Cliton e nel 1128 Thierry d’Alsazia rinunciavano a favore del Tempio ai “rilevamenti” dei feudi»[5]

Il patrimonio del Tempio si andava formando così con le ricchezze donate dai primi Templari. Ma si aggiungeva -e non era un provvedimento isolato verso chi partiva per il santo pellegrinaggio- l’ordine per tutti gli usurai presenti nei vari territori dei monaci-soldati   di smettere di prestare a usura. 

A noi preme mettere in luce la modalità di formazione del patrimonio dei Templari e ribadire lo «stretto legame esistente tra lasciti pii ed ingresso nell’ordine»[6]

Ma quale e quanto era il fabbisogno per le spese militari in Terrasanta? Era rilevantissimo e soprattutto costante. Se consideriamo che non si trattò solamente di proteggere il viaggio dei pellegrini ma in seguito di sostenere vere e proprie guerre (quasi un vassallaggio per i regni d’oltremare dei Lusitano e dei Lusignano) ne comprendiamo la rilevanza: armi, finimenti, cuoio, tessuti e -soprattutto!- cavalli (ogni cavaliere ne doveva disporre di almeno tre). Il tutto soggetto a logoramento e ricambio. A questo aggiungiamo la costruzione delle fortezze a difesa dai Saraceni (molti citano il Krak des chevaliers, in realtà degli Ospedalieri ma serve a rendere l’idea). Servono soldi, tanti. 

Ecco che non bastano più le donazioni all’ingresso ma servono continue offerte «Il sire di Noyers, anch’egli crociato, ricorda lo zelo dimostrato dai templari nel servire Cristo ed insiste sulla necessità di aiutarli: cede loro una rendita di sessanta soldi…Nella regione tolosana i fedeli costituiscono rendite annuali …integrate da un dono di…venti soldi, un cavallo, delle camicie»[7]

La luce come vediamo sta cambiando se vogliamo ricordarci della stratigrafia cui ci eravamo impegnati all’inizio di questo scritto. «Dalla semplice gestione di fondi per conto terzi l’ordine passa naturalmente ad un’attività di prestito (!)…l’ordine fa fruttare il suo denaro.»[8].

Non potevano far altro, date le pressioni, le richieste, le preghiere, le suppliche finanche (provenienti dai luoghi di culto del continente); piano inclinato che li porterà alla distruzione (1307)[9] da parte di chi non vedrà in essi se non una gallina dalle uova d’oro. 

Ma se noi richiamiamo alla memoria lo spirito, gli ideali, l’abito mentale inizialedi questi milites usciti dall’aristocrazia e insieme di questi monaci penitenti la cui armatura è un’armatura di fede non possiamo che considerare con tristezza il loro itinerario: da “signori” non avrebbero dovuto far altro che donare, mostrarsi generosi, profondere a piene mani le proprie ricchezze ai loro “uomini” e invece si arresero al profitto, alla rendita, al prestito ad interesse. Da monaci che professavano un modello di santità, sincero fino al ritiro dal mondo e al sacrificio di sé, si svilirono a dover confrontarsi con i temi materiali, prosaici, venali. 

E’ riuscita l’usura -cacciata dalla porta- a reintrodursi dalla finestra?  E’ riuscita a insinuarsi nella mente -nel cuore- di quei penitenti? A sconfiggerli? 

-Il verso di Guglielmo IX d’Aquitania è preso da: Aurelio Roncaglia, Antologia delle letterature medievali d’oc e d’oil. 

-Per un affresco sul mondo e la mentalità della feudalità leggasi l’avvincente testo di G.Duby, Guglielmo il Maresciallo l’avventura del cavaliere 


[1] Demurger, Alain, Vita e morte dell’ordine dei Templari. 

[2] Ibid.

[3] Ibid.

[4] Ibid.

[5] Ibid.

[6] Ibid.

[7] Ibid.

[8] Ibid.

[9] I Templari furono sterminati a seguito del processo che Filippo il Bello nel 1307 intentò loro. Jacques de Molay loro capo fu arso sul rogo. 

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