UNA PANORAMICA STORICA SULLO STATO, CON ALCUNE CONSIDERAZIONI FINALI   

L’epoca che sta ora finendo ha segnato dapprima la crisi e poi la dissoluzione di una concezione determinata dei rapporti tra gli Stati, rapporti che erano basati sul principio della reciproca parità formale (o «pari dignità»), perché dedotti dal principio di sovranità, inteso come «indipendenza-supremazia» di ogni singolo Stato.

Gli Stati potevano porre un diritto pubblico interstatale – uno jus publicum tendenzialmente cogente – perché questo era garantito dal libero confluire di più volontà sovrane: quelle stesse volontà che sul versante interno stabilivano l’ordine entro i propri confini territoriali. In formula sintetica, sovranità significava assoluta e incondizionata libertà di autodeterminazione di ciascuno Stato-nazione sia al proprio interno che nelle relazioni esterne.

Il concetto di sovranità dominante per tutta la durata dello jus publicum Europaeum (dal secolo XVI a buona parte del secolo XX) era un concetto essenzialmente formale e astratto, nascondeva entro un empireo di forme generali ed astratte tutta una struttura di interessi reali veri e propri[1] –: interessi apparentemente privi di collegamento con quelle forme, eppure resi possibili proprio dalla permanenza di quelle forme. (Si parla di forme giuridiche, essenzialmente, ma anche di forme culturali e di civiltà).

Ma è chiaro che nella nostra esperienza storica questo rapporto funzionale tra le forme generali ed astratte, da un lato, e la possibilità di garantire gli interessi reali, dall’altro, è entrato in crisi definitiva, e allora occorre squarciare il velo delle categorie astratte – e ciò proprio al fine di comprendere che cosa sta accadendo realmente.

In questo senso va riconosciuto che le più recenti vicende della storia ci costringono a riportare – come si suol dire – «sulla terra» l’idea di sovranità, ricapitolando in primo luogo brevemente quanto sappiamo ormai da tempo riguardo all’idea di sovranità in Europa nel quadro della modernità.

  1. – Una vera e propria teoria della sovranità sorge, come è risaputo, in Europa soltanto nel secolo XVI in concomitanza con il primo affermarsi nell’ambito della modernità del «principio monarchico». Nei secoli successivi, almeno fino al tardo Ottocento, tale teoria rimane sostanzialmente identica a se stessa e non viene mutata salvo che nell’attribuzione ad un diverso soggetto sovrano in quanto soggetto di imputazione (in quanto la titolarità viene trasferita dal monarca alla persona giuridica dello Stato) e inoltre ai diversi modi di esercizio della sovranità (con l’idea di rappresentanza popolare, divisione dei poteri, ecc.).

 La prima teorizzazione moderna della sovranità era stata enunciata da Jean Bodin, sul finire del ‘500, ed era nata in funzione dello «Stato nazionale», da allora in poi concepito come «Stato sovrano» ovvero semplicemente come «Stato».

La sovranità, come scrive Bodin, è «quel potere assoluto e perpetuo che è proprio dello Stato», consistente, più precisamente, in una posizione (a) di indipendenza e (b) di supremazia dello Stato. Lo Stato è figura del tutto incondizionata da forze estranee (qui sta il dato dell’indipendenza), e inoltre può imporre al proprio interno, per dirla ancora con Bodin, «ogni possibile decisione che dipende dalla propria volontà» (qui sta il dato della supremazia).

La storia successiva dello «Stato nazionale» non avrebbe poi fatto altro che confermare, nella cornice giuridica dell’Europa continentale fino alla fine dell’Ottocento, la configurazione dello Stato come «persona giuridica», cioè come «soggetto di volontà irresistibile» ovvero come «soggetto potenzialmente in grado di disporre liberamente su tutto» (e, quindi, potenzialmente totalitario!).

L’idea della sovranità come indipendenza/supremazia avrebbe però immediatamente trovato un forte contraltare nel concetto della «libertà naturale» della persona umana. L’individuo è visto nella tradizione europea (impostata sulla base del cristianesimo e del diritto romano) come naturalmente libero di agire giuridicamente, salvi i limiti imposti dalle norme giuridiche, ed è perciò dotato di una capacità giuridica di cui non può essere arbitrariamente privato.

Autonomia-libertà della sfera individuale e sovranità statale diventano così, già nella prima modernità, i termini – i «predicati» – propri rispettivamente della persona umana e della persona-Stato, in quanto categorie storiche in cui si traduce l’eterno rapporto filosofico-politico tra libertà e autorità.

È quasi superfluo aggiungere che, trasposta in questi termini l’originaria teorizzazione di Bodin, il diritto pubblico dell’Europa continentale si colora di un significato tipicamente hobbesiano, per cui l’autorità sovrana, contrapposta alla pur insopprimibile libertà delle persone, resta infine l’arbitro ultimo nella fissazione della linea di divisione tra l’autorità e la libertà. (Questa è la funzione politica delle leggi: non è un caso che il primo a teorizzare lo Stato come persona giuridica, in un senso moderno, è proprio Hobbes). Precisamente in questo potere, in questa «competenza sulla competenza», attribuita ad una persona giuridica suprema, consiste la sostanza della sovranità.

Il referente oggettivo della sovranità è il territorio, nel senso che, proprio perché si tratta di una posizione assoluta e illimitata, questa è esclusiva, e quindi può essere esercitata soltanto entro un ambito oggettivo chiaramente delimitato e determinato, come diceva la dottrina dello Stato tradizionale.

Entro i confini nazionali la sovranità è inattaccabile, almeno finché lo Stato cui si riferisce rimane uno Stato, e non viene trasformato in colonia, protettorato o in altre forme similari, contrassegnate da una deminutio formale. Riguardo a ciò restano fondamentali le notazioni di Carl Schmitt nel Nomos della terra.[2]

La teoria della sovranità così definita non subisce inoltre deroghe neppure di fronte alla problematica articolazione dello «Stato federale», cioè dello Stato «composto da più Stati», articolato in più Stati (definisco così lo «Stato federale», escludendo da tale nozione gli Stati su base semplicemente «regionale» e tutte le altre forme di Stato che, pur quando si autodefiniscono federali, sono in realtà semplici forme di decentramento).

2. – Nell’ambito della teoria della sovranità elaborata entro la cornice storica dello «Stato nazionale», che ho fin qui sintetizzato, nasce la prima distinzione moderna fra «guerra giusta» e «guerra ingiusta»: una distinzione che, come si dirà successivamente, non è più utilizzabile oggi, essendo venuto meno sia il concetto di sovranità che la determinava, ma soprattutto – ed è ciò che più conta – ilcontesto spaziale internazionale su cui tale distinzione si basava. Prima di esaminare direttamente questo punto, mi soffermo ancora solo un momento sul collegamento logico tra il principio di sovranità, come lo abbiamo fin qui illustrato, e il contesto internazionale di riferimento, che resta il dato fondamentale.

Innanzitutto, occorre precisare che la teoria classica dello Stato sovrano di cui abbiamo detto presuppone un rapporto giuridico tra ordinamento interno (ossia Stato in senso proprio) e ordinamento internazionale di tipo «dualistico», nel senso che l’uno e l’altro devono essere intesi come ordinamenti logicamente distinti e separati, oltre che dotati di diversi principi di legittimazione. L’ordinamento statale era visto infatti come un ordinamento, per così dire, «primario», intendendo con ciò che la sua autorità si basa sul consenso dei governati (non importa qui in quale forma espresso) cioè delle stesse persone fisiche che sono sottoposte al potere statale. L’ordinamento internazionale è invece un ordinamento «secondario», nel senso specifico che la sua legittimità dipende dalla volontà e dal consenso dei singoli Stati che lo compongono, non già delle persone fisiche a questi corrispondenti.

In secondo luogo, e in conseguenza di quanto s’è detto, va detto che, mentre l’ordinamento statale è un ordinamento «governante», nello specifico senso che è espressione di un soggetto (lo Stato) che, godendo di una posizione generale di supremazia, emana norme e comandi e, in tal modo, esprime un «governo» nei confronti delle persone sottoposte coercitivamente al proprio potere sovrano, al contrario l’ordinamento internazionale è, come usualmente si dice, anarchico, cioè non esprime, né è in grado di esprimere, un «governo», nel senso di autorità investita del potere di porre norme prescrittive, e neppure è in grado di ritenere con una ragionevole certezza che queste prescrizioni possano essere eseguite.

È in questo contesto storico e categoriale che fa la sua apparizione la prima distinzione moderna fra «guerra giusta» e «guerra ingiusta».

È noto che la distinzione risale indietro nel tempo ed è altrettanto noto il dibattito plurisecolare sviluppatosi fino ai nove dubia sollevati a proposito della conquista dell’America da Francisco de Vitoria, uno dei maggiori teologi e moralisti del XVI secolo. Ma la distinzione medioevale era tutt’altra cosa. Essa aveva le sue radici nella respublica christiana, sicché i criteri di legittimità riposavano sul «diritto divino» e sull’idea di una superiore dignità dei popoli «cristiani» su quelli «infedeli», e traevano forza più da una convinzione storico-spirituale di appartenenza ad una civiltà, quindi da un fattore che potremmo definire «esistenziale», che non da un sistema formalizzato di regole presupposte come oggettive e razionali. (Lo jus gentium non era insomma una semplice somma di norme occasionali, reciprocamente fungibili, ma rifletteva l’immagine sostanziale di una civiltà).

Al contrario, al termine della prima guerra mondiale, con il Protocollo di Ginevra del 1924, per la prima volta l’umanità pretese di aver individuato una regola obiettiva e  razionale  di  diritto  internazionale  identificando  la «guerra ingiusta» con l’aggressione e quella «giusta» con la difesa dalla precedente aggressione. Una regola che si voleva obiettiva e razionale – s’è detto – ed anche chiara in astratto, ma – va subito aggiunto – tutt’altro che lineare e inequivoca come criterio pratico di risoluzione dei conflitti interpretativi su chi sia in concreto l’aggressore. («Aggressore» è solo «chi spara il primo colpo»? È una diagnosi semplicistica, come già notava Schmitt!).[3]

Riguardo a tale distinzione è del resto noto il fallimento che ne seguì, – e questo già fin dall’inizio, a causa soprattutto dell’opposizione della Gran Bretagna, la quale avanzò subito i dubbi che ho detto, relativi alla difficoltà di individuare in concreto chi fosse realmente l’aggressore e, specialmente, non nascose il sospetto che la regola proposta potesse favorire gli Stati più forti. Ancora maggiori sono poi i dubbi relativi a questa problematica distinzione (tra guerra «d’aggressione» e guerra «di difesa») di fronte ai mezzi moderni di distruzione, che sovvertono il tradizionale parallelo tra principio di territorialità e potenziale tecnologico degli armamenti.

Quale che sia il credito da dare a tali critiche, sta di fatto che la riconduzione dell’«ingiustizia» della guerra all’aggressione segna un cambiamento radicale. L’aggressione, infatti, configura una violazione di una «integrità territoriale», e quindi una sua illegittima lesione. L’analogia resta con la violazione dell’istituto della proprietà, dell’integrità della sfera individuale, la quale, come la sovranità nazionale, viene illegittimamente violata in presenza di chi cerca di usurparne i relativi poteri occupandola invito domino.

L’irrompere di tale imperativo etico del rifiuto della guerra d’aggressione nel diritto internazionale è senz’altro stravolgente rispetto alle antiche concezioni e introduce un elemento di contraddizione oggettivo in riferimento alle stesse premesse del sistema del diritto internazionale.

L’affermazione (o la postulazione) di un principio come quello indicato, basato sul rifiuto della violenza come mezzo di risoluzione dei conflitti internazionali comportava chiaramente l’abolizione del principio di sovranità nazionale e la creazione di una societas internazionale capace di darsi un ordinamento giuridico effettivo, dotato di propri organi e di un proprio «governo».

Non è un caso – ma, anzi, è il frutto di una piena coerenza logica – che il più autorevole sostenitore nel corso del XX secolo della «pace perpetua», e perciò fautore della teoria «monista» e della conseguente superiorità dell’ordinamento internazionale su quelli nazionali – ossia Kelsen – giunga alle proprie conclusioni passando per la critica radicale allo Stato come «unità sostanziale», come si esprimeva

già in un’opera del 1911, gli  Hauptprobleme der  Staatsrechtslehre.  Kelsen postulava come è noto la riduzione dello Stato a mero «ordinamento normativo» e quindi la distruzione della sovranità in quanto suprema «posizione» gerarchica, e inoltre l’eliminazione della territorialità come definizione dell’ambito spaziale di esercizio del potere, consentendo semmai a ridefinirla come puro «ambito di vigenza» di norme.

Ciò che però realmente conta è che, in linea di fatto, sulla scorta delle indicazioni intellettualistiche provenienti dal kantismo giuridico, di cui è intriso anche Kelsen (il «duro positivista» Kelsen) non si è, anche in seguito, realizzata nessuna delle condizioni che avrebbero potuto permettere lo sviluppo della distinzione prospettata dal Protocollo di Ginevra del 1924. La creazione di una societas universalis organizzata giuridicamente è rimasta obiettivamente un’idea lontana da un’effettiva realizzazione, semmai addirittura contraddetta da elementi nuovi agenti in senso opposto!

Si è creata, così, una situazione nella quale nessuno dei problemi cui era collegato il buon funzionamento della distinzione tra «guerra di difesa» (giusta) e «guerra di aggressione» (ingiusta) è stato risolto -: in particolare non è stato risolto né il problema dell’obiettiva e certa individuazione dell’«aggressore», né quello della ricerca di un’autorità internazionale imparziale in grado di dirimere gli eventuali (e più che probabili) conflitti.

3. – Ora, riguardo alla desiderabilità di un ordinamento giuridico mondiale come ordinamento legittimo capace di dirimere i conflitti internazionali su scala planetaria, vanno fatte alcune considerazioni.

Per lo svolgimento di questa funzione, è davvero impossibile pensare – anche se per la verità non mancano proposte di tal genere – alle attuali Nazioni Unite. È noto infatti che la competenza speciale per la sicurezza internazionale è affidata in seno all’ONU ad un organo non rappresentativo – il Consiglio di sicurezza – la cui composizione e i cui poteri riflettono ancora il periodo postbellico, al punto da assicurare ai Paesi vincitori dell’ultimo conflitto mondiale posizioni e poteri di assoluto privilegio, che non hanno già oggi alcuna giustificazione e l’avranno sempre meno nel futuro.

L’impedimento maggiore al trasferimento ad una sede internazionale della competenza politica di risolvere i conflitti tra le nazioni sta nella mancanza di una vera e propria opinione pubblica internazionale. Quella che viene presentata come tale è in realtà una finzione, una costruzione mass-mediatica dipendente in massima parte da mezzi di stampa e televisivi organizzati nei Paesi occidentali. La verità è che, rispetto a tutte le proposte di istituire un ordinamento internazionale dotato di poteri supremi in materia di sicurezza e di pace, c’è un’obiezione radicale, la cui fondatezza ricaccia tutte le possibili proposte nel limbo della eterna utopia.

Pace e sicurezza – come ci hanno insegnato i classici, a cominciare da Cicerone e da Kant – sono «valori modali» o, detto in altri termini, sono modi di essere che presuppongono una preventiva decisione sui valori supremi da salvaguardare e sui quali non si debba dare conflitto. Decisione che costituisca la risposta a precise domande. Ad esempio: quali sono le relazioni «secondo giustizia» fra le nazioni? quali sono i beni supremi la cui garanzia è necessaria per non mettere in pericolo il mantenimento della pace e della sicurezza fra le nazioni?

Quel che si vuole sottolineare è che un ordinamento internazionale superiore, volto ad assicurare in modo permanente e istituzionale la pace e la sicurezza tra le nazioni, presupporrebbe la condivisione da parte di tutti i popoli dei valori supremi ai quali riferire il senso effettivo della pace e della sicurezza internazionale.

Ebbene, la realizzazione di tale condizione appare così lontana dalla realtà che immaginare una «societas juridica universalis» sembra proprio un esercizio di filosofia astratta di natura assolutamente consolatoria, un modo per sedare taumaturgicamente le inquietudini di un mondo che sta perdendo gradualmente le regole tradizionali di valutazione e di risoluzione dei conflitti internazionali.

Né vale a tramutare questa logica in una logica di diritto e di giustizia il fatto che su singoli episodi si istituiscano Tribunali internazionali volti ad accertare imparzialmente la responsabilità. Così è avvenuto, ad esempio, nei decenni scorsi per la Bosnia e il Ruanda. In realtà, questi Tribunali ad hoc ricordano troppo quello di Norimberga, nel quale i vincitori giudicavano i vinti. («Il vincitore scrive la storia»). Oggi, alla luce delle esperienze passate, non si può in alcun modo pensare ad un tribunale che diventi il modello per un’azione permanente e continua di affermazione di valori nella storia, tanto più che il «diritto» invocato da queste Corti di giustizia internazionali è così vago e indeterminato da non offrire le necessarie garanzie di certezza e di incontestabilità.

L’assenza di una prospettiva realistica e attuabile di un ordo internationalis investito dei poteri di decisione sui conflitti fra le nazioni impone di esaminare in termini critici il presente e di cercare di capire che cosa si stia sostituendo al vecchio jus publicum Europaeum ereditato dalla pace di Westfalia.

4. – È un dato certo che il processo di globalizzazione possa procedere soltanto creando e ricreando differenze e squilibri, differenziali di potenza – che vanno quindi in primo luogo conosciuti. Ma allora il problema consiste propriamente nell’analizzare se questi squilibri possano evolversi, o possano essere concepiti, nel senso che è proprio del Nomos della terra di Schmitt, in una chiave di pluralismo poliarchico, di effettivo pluralismo poliarchico –: non si tratti cioè di semplici differenze nella distribuzione del potere all’interno di un sistema totalizzante.

Altra cosa certa è che se l’epoca globale – l’epoca che potrebbe essere detta, in termini schmittiani, dello «sradicamento del nomos», cioè dell’ordinamento senza radici, senza localizzazione territoriale («Ordnung ohne Ortung», diceva Schmitt) – se quest’epoca si affermerà compiutamente, cioè se quest’epoca dello sradicamento del nomos assumerà ancora forma politica, ciò avverrà al di fuori della forma statale. Quindi se l’attuale caotica pluralità delle fonti, data dall’interdipendenza tra organismi sopranazionali, autorità sopranazionali dotate di competenze specifiche, tecniche, lex mercatoria, e ancora altri fantasmi del diritto internazionale) se tutto ciò potrà mai assumere progressivamente la forma di istituzioni politiche globali, – allora tutta questa congerie occasionalistica non potrà in nessun modo presentarsi come logico sviluppo della forma- Stato. La politica «oltre lo Stato» di cui parlava Gianfranco Miglio è diventata davvero il problema della nostra epoca.[4] (Problema però che potrebbe anche risolversi, in linea teorica, nel senso che non ci sarà più nessuna politica oltre lo Stato. Ma solo governments, polizie locali: non Stati sovrani in senso proprio ma governi deboli come fattori sempre decisivi nella distribuzione territoriale del potere: nella distribuzione del potere nello spazio, che potrebbe tuttavia ancora richiedere una residuale permanenza dell’attività legislativa).

In ogni caso «oltre lo Stato» non ci attende lo «Stato mondiale». L’espressione «Stato mondiale» («Weltstaat»), che usava Jünger in un suo saggio degli anni ’60[5], è sviante e non va evidentemente confusa con l’idea di uno Stato – di uno Super-Stato – capace, in determinate circostanze, di svolgere una politica autonoma su scala planetaria, ma per quanto forte, questo Stato sarà sempre una variabile dipendente del sistema di integrazione globale. Potrà fare tutto, questo «Stato», ma non l’essenziale. Determinare cioè – e dare – un nuovo ordine globale garantito da istituzioni politiche globali.

Dall’ordine degli Stati all’ordine globale vi è in altre parole un salto: non si può dare tra essi una deduzione naturale, una transizione che dal sistema degli Stati ci conduca all’ordine globale, quasi non si volesse considerare che si tratta invece di due tipi di ordini qualitativamente diversi/incomunicanti.

Questo ci riporta ad una vecchia ipotesi teorico-politica di Kojève, consistente nell’idea di impero, imperium, del tutto diversa rispetto a quella dello «Stato mondiale» di cui parlava Jünger. Secondo Kojève l’imperium sarà sopranazionale nel senso specifico del termine – cioè l’ordine sopranazionale sarà di forma «imperiale» – perché comprenderà nationes, gentes piuttosto che Stati.

Non dunque un ordine «sopra-statale», «meta-statale», ma «sopra-nazionale».[6] Questo ordine dovrebbe essere la rappresentazione di un foedus politico che collega le nazioni che lo compongono, in contrasto – come è ovvio – con l’idea del comando «di uno solo», nel quadro di una civitas maxima indifferenziata (si ricordi l’espressione kelseniana civitas maxima, che copriva un desiderio tutto intellettualistico di omogeneità vista come estrema razionalizzazione, quasi che si trattasse di un necessario compimento universalistico della storia mondiale).

Ebbene, l’idea di un foedus poliarchico tra entità territorialmente radicate in grandi spazi andrebbe in direzione esattamente opposta, consistendo in grandi spazi politici, tenuti insieme al proprio interno da una comunanza di interessi, economici, culturali, religiosi -: in una parola elementi radicanti di civiltà, pur nel quadro di rapporti divenuti ormai globali, giocati su scala globale.

Si tratterebbe in tal caso di un quadro «imperiale», per usare il lessico di Kojève, ma di natura «confederale» –: determinato da un insieme di nationes o gentes che siano in grado insieme di dar vita a foedera tra entità politica dotate di affinità. Non si darebbe possibilità comunque di formare, attraverso di esso, una societas di tutte le nazioni: una società universale indifferenziata comprendente tutti: sarebbe una contraddizione antipolitica, una perfetta utopia. Si potrebbe creare societas tra nazioni e genti solo se queste fossero tra loro coerenti per ragioni storiche concrete.

Ma occorre a questo punto tornare a chiedersi: è concepibile un simile spazio imperiale come spazio sovranazionale coerente, politicamente-culturalmente strutturato – è concepibile oggi sulla base di accordi e patti non meramente convenzionali tra identità ricche di significato storico-culturale?

È concepibile un «grande spazio» che viva di queste differenze? Ed è concepibile che tali differenze possano produrre un foedus tra gli uomini? Che possano determinare tra gli uomini una lealtà, una fidelitas che non sia semplice vassallaggio dell’uno nei confronti dell’altro?

È praticamente impossibile, come si può ben comprendere, rispondere in maniera diretta a questo tipo di domande. Possiamo solo concludere osservando che l’unica cosa che è certa è che l’ipotesi di un foedus di questo genere, a cui si potrebbe giungere a partire dalla problematizzazione dello scritto di Kojève (oltre che naturalmente da una rilettura e da una opportuna riattualizzazione dell’idea dei «grandi spazi» di Carl Schmitt) – un’ipotesi come questa, tutta da vedere, tutta da elaborare, ma molto chiara nelle sue linee programmatiche fondamentali, costituisce l’esatto opposto rispetto a quella di uno «Stato mondiale» alla Jünger, come pure di una kantiana civitas maxima «costituzionalizzata», sottoposta ad una illusoria regola costituzionale universale, oggi riesumata in Italia da “pensatori” come Ferrajoli, cui si deve un patetico tentativo, del tutto ideologico, di riadattamento del costituzionalismo otto-novecentesco alle dinamiche del ventunesimo secolo.[7]

Non di questo ovviamente si tratta oggi, in un quadro generale in cui la vera “costituzione del mondo” è data piuttosto dalla rete globale delle oligarchie finanziarie che ricattano e tiranneggiano, senza alcun contrappeso, la politica dei governi. La vera costituzione del mondo, si potrebbe concludere provocatoriamente con Ezra Pound, è data dall’usura -: dalla speculazione finanziaria incontrollata, perché di fatto incontrollabile nel quadro degli equilibri esistenti, che riduce l’essenza residua dello Stato, con la sua pletora di burocrati e di clientes, a luogo periferico di amministrazione e di estorsione fiscale finalizzato a pagare con la tassazione gli enormi interessi – da tempo di gran lunga superiori al capitale dovuto – sul presunto “debito pubblico”: qualcosa che in realtà è inestinguibile in quanto originato dalla creazione del denaro dal nulla, ossia dal peccato originale che sta a fondamento innominabile della nostra putrefatta epoca storica.


[1]  Cfr., a puro titolo d’esempio, quanto giunge a sostenere Michel Foucault in una lezione del 1976 al Collège de France: «Il problema per me è di evitare la questione, centrale per il diritto, della sovranità e dell’obbedienza degli individui ad essa sottoposti, e di far apparire, al posto della sovranità, il problema della dominazione e dell’assoggettamento» (M. FOUCAULT, Difendere la società. Dalla guerra delle razze al razzismo di Stato, Firenze 1990, p. 32). Cfr. anche: «È la vita, molto più del diritto, che è diventata la posta in gioco delle lotte politiche, [realizzando] nuove procedure di potere che, a loro volta, non partecipano del diritto tradizionale della sovranità» (ID., La volonté de savoir, Paris 1976; trad. it. Milano 1978, pp. 128-129, corsivo mio). Cfr. sul tema P. COSTA, Il modello giuridico della sovranità: considerazioni di metodo e ipotesi di ricerca, in «Filosofia politica», 1, 1991, pp. 51-69.

[2] C. SCHMITT, Der Nomos der Erde im Völkerrecht des Jus Publicum Europaeum, Köln 1950 (trad. it. Milano 1991).

[3]   «Sparare il primo colpo o oltrepassare per primi i confini non coincide evidentemente con l’essere gli autori della guerra nel suo complesso» (C. SCHMITT, op. cit., trad. it. p. 357).

[4] «La figura classica dello Stato, ossia lo Stato in quanto monopolio della politica e, insieme, in quanto progetto di spoliticizzazione, svanisce trascinando nel suo declinare la stessa “civiltà giuridica”. La politica si esprime ormai oltre lo Stato e lo Stato si rivela essere soltanto una transitoria e già superata manifestazione della politica» (G. MIGLIO, Oltre Schmitt, in ID., Le regolarità della politica, vol. II, Milano 1988, p. 755).

[5]                  E. JÜNGER, Der Weltstaat, Stuttgart 1980 (trad. it. Parma 1998).

[6] A. KOJÈVE, Esquisse d’une doctrine de la politique française (1945), trad. it. in ID., Il silenzio della tirannide, Milano 2004.

[7]             L. FERRAJOLI, Per una costituzione della Terra, Milano 2022.

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