Siamo il Bel Paese?

Certo che siamo il Bel Paese.

Un territorio che, da solo, propone ogni elemento di fascino naturale che elevi un panorama a spettacolare capolavoro. I mari hanno acque e coste differenti. La Sardegna con la sabbia bianca, le rocce rosate per poi immergersi in trasparenze di smeraldo e turchese. Dal litorale ligure al confine Croato, è una continua alternanza di scogliere, spiagge, parchi naturali, promontori, riviere celebri, isole rinomate.

Addentrandosi ci si imbatte in una delle più varie orografie immaginabili. Colline, valli, pianure, laghi e monti. E tanta varietà riesce a essere anche riferimento delle meraviglie naturali del mondo.

Poi c’è la storia, la vita dell’uomo nei secoli, dall’impero romano a oggi, raccontate da un suolo cosparso di vestigia intatte, chiese, teatri, palazzi, borghi.

Momenti infelici sono naturalmente parte di queste meraviglie, alcuni armonizzandosi con il contesto grazie all’abitudine e al tempo, che velano tutto con una patina di omogeneità. Altri sono scomparsi del tutto, come la suburra romana, un crimine edilizio a cielo aperto, o altri sobborghi depressi di baracche e sudiciume.

Ma quello che accadde dal dopoguerra, annunciato col Risorgimento, ridefinì la vivibilità del territorio. L’Italia Unita, con la successione veloce di tre capitali e un primo livello di industrializzazione, ha imposto radicali e diffusi ampliamenti urbanistici, consentendo la necessaria redistribuzione della popolazione, che avrebbe affollato sempre di più le città.

Dopo le due guerre mondiali, l’European Recovery Program, più noto come Piano Marshall, ha consentito non solo la ricostruzione e la ripresa del continente, ma ha spinto la crescita esponenziale della manifattura e della demografia nazionale, l’una a servizio dell’altra. Questo ha comportato speculazioni in vari ambiti, in particolare quello edilizio. La bandiera del benessere sventolava coprendo la disumana bruttezza dei nuovi insediamenti intensivi. Abitare all’ottavo piano della scala F nel condominio grande come un isolato era un miraggio di progresso metropolitano senza connotazioni abbrutenti. Soprattutto, in primo piano restava il benessere.

Con il corso inaugurato da Reagan e la Thatcher, di liberismo, stato minimo e moneta scarsa, è sopraggiunta l’austerità. È sparito il benessere lasciandoci luoghi anonimi, dimessi, che senza una prospettiva di decoro e vivibilità elevano la loro bruttezza a confino disperato per chi vi abita e incombenza degradata per chi è fuori.

La bella Italia è sempre meno bella. Dopo le ridondanze umbertine e un razionalismo non sempre filologicamente eseguito, specie dagli anni ‘50 in poi i centri abitati sono cresciuti con edifici estemporanei, approssimativi, tirati su alla sera con l’aiuto dei compari. Qualsiasi cittadina o paese, anche quelli rinomati, sono il dominio incontrastato dei geometri, la preclara testimonianza dei limiti del loro tecnicismo, della brama di piccoli immobiliaristi improvvisati di possedere “il mattone”, di farlo sapere ai conterranei, di risolvere le proprie pretese da recenti e vaghi arricchiti con fabbricati scadenti. Non che si sia fatto meglio nell’edilizia residenziale di lusso. Escluse rare palazzine di architetti e pregevoli scuole stilistiche, anche qui abbondano costruzioni anonime, sicuramente spaziose e rifinite all’interno, ma insignificanti per l’arredo urbano e l’impatto estetico su strada. Senza il conforto di viali alberati, puliti e mantenuti, resta l’infilata posticcia e disarmonica di cemento e foratini con cui si è coperto ogni spazio consentito (e non) dai piani urbanistici.

Lo spettacolo contemporaneo stona con il territorio e la sua storia. Ciò che è nato brutto o quantomeno incongruo, oggi appare scalcinato e inattuale. I nostri paesi, le nostre città restano belli in aree circostanziate e sono diventati brutti nella maggior parte.

Ma l’austerità, ovviamente, non ricade solo sul decoro urbano. Affligge le infrastrutture e i servizi, deprime la qualità quotidiana della vita, appiattisce tutto in una dimensione di squallore e disfunzionalità diffusi. Compiere qualsiasi atto burocratico è un’impresa costosa e ardua. Lo Stato è assente dove richiesto, ostile laddove si impone al cittadino.

La mobilità è complessa. In automobile si percorrono strade dissestate o in perenne manutenzione, qualsiasi intralcio o incidente non è né comunicato né gestito. Ti ritrovi in file chilometriche e lì rimani finché non raggiungi un’area di servizio senz’anima, appiccicosa, con la sua gastronomia immangiabile per istinto, incomprensibile per concetto, impagabile per esosità.

Peggio incorre a chi dovesse spostarsi con il trasporto pubblico. I treni rispecchiano l’andamento complessivo. In più, se muoversi verticalmente, in alto e in basso lungo lo stivale è possibile, farlo da costa a costa è sempre stata una sfida contro il tempo, la pazienza e l’ottimismo. Pensare di andare da Grosseto ad Ancona in treno, è velleità in purezza. Forse l’astio tra settentrionali e meridionali è dovuto al fatto che almeno si sono incontrati. Temo che adriatici e tirrenici non si siamo mai conosciuti, visto che la dorsale appenninica è intesa come un impercorribile buco nero. Circolare nelle città è acrobazia. Sperare in un parcheggio implica la fede sottomessa di un turiferario.

Sbrigare commissioni e faccende è un percorso a ostacoli, tra procedure astruse, sciatterie municipali e disservizi crescenti. L’orrore del turismo di massa ha trasformato le strade rinomate dei nostri centri in suk omologati di paccottiglie e ciarpami, di grandi firme standardizzate e sintetiche, dove trovare qualcosa di autentico e pregevole è un ricordo o un incidente sporadico.

Vivere o visitare un paese così è sempre meno gratificante. Non c’è solo la soddisfazione di quanto sempre c’è di bello, l’orgoglio di appartenere alla storia. Non c’è solo il Colosseo, Venezia, qualsiasi altra gloria monumentale, non c’è solo il mare stupendo, ma la costa che vedi quando fai il bagno e che vivi quando sei a terra. C’è quello che puoi fare, e come lo fai, tra un museo e una gita sulle Dolomiti.

Senza incorrere nel qualunquismo di indicare posti migliori, senza scivolare nella retorica dichiarazione di volersi dimettere da Italiano, resta il bisogno di comprendere la destinazione di un tale percorso e vale la pena valutare le alternative possibili. Altrove, in qualche luogo, non molti ma neanche pochi, c’è vita e vivibilità. Abbiamo le risorse per ritrovare la nostra?

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Fiorella Ciampa
Fiorella Ciampa
7 mesi fa

Gli italiani non sono mai stati orgogliosi del proprio Paese, per paura di apparire troppo nazionalisti hanno sempre cercato di denigrarlo, di trovare la mediocrità anche dove non c’era. Con la propria lingua si comportano nello stesso modo, tempo fa in tv Augias durante una sua intervista disse che l’italiano aveva troppe vocali. Con gente così secondo me sarà difficile trovare le risorse, ma dobbiamo comunque provarci perché la bellezza non si può disperdere soprattutto in un mondo che cerca disperatamente di imbruttirsi.

Gimmi
Gimmi
6 mesi fa

Concordo sullo stigma dell’antitalianità. Poi, gli “intellettuali” alla Augias, vecchi nichilisti avvelenatori di pozzi, sono fastidiosi.

lo
ciao
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