Odiare l’oro

ahimè, ora, come tocca i doni di Cerere con la mano, quei doni diventano rigidi; se poi con avidità cerca di lacerare con i denti qualcosa, appena l’addenta una lamina d’oro ricopre la pietanza; mischia ad acqua pura il vino del suo benefattore Bacco: oro liquido gli avresti visto colare dalla bocca. Terrorizzato per l’inaspettata sciagura, ricco e povero insieme, vuol sottrarsi all’opulenza e odia ciò che aveva un tempo tanto sognato. Tanta abbondanza non può calmargli la fame, arida di sete gli arde la gola e, come è giusto, inizia a odiare l’oro

Ovidio, Le Metamorfosi

Introduzione

La divisione internazionale del lavoro rappresenta uno dei maggiori capisaldi dell’egemonia ideologica liberale, sin dagli albori del dominio del modo di produzione capitalistico. Secondo Ricardo, l’aedo principale della Weltanschauung borghese, il vantaggio comparato rende conveniente per tutti specializzarsi in una data produzione, lasciando al commercio internazionale il compito di massimizzare i rispettivi benefici. Non vogliamo dilungarci nella spiegazione tecnica: conta qui mostrare come una teoria economica fondata su un’astrazione sia stata per due secoli eretta a monolite dell’economia ufficiale al fine di giustificare e mantenere un certo sistema di potere egemonico. Guardando le date, la dinamica si svolge in maniera cristallina: vinta definitivamente la sfida francese al controllo sull’Occidente, la classe dominante britannica tra il 1815 e il 1845 prepara in casa gli strumenti del proprio dominio globale. La dialettica interna si risolve nel trionfo del capitale contro la rendita agraria: l’abolizione delle tariffe protezionistiche sul grano arriva a completare un ciclo di fondamentali riforme istituzionali- la nuova legge sui poveri del 1834 e la legge bancaria del 1844- che saldano il modello socio-economico del capitalismo alla struttura statuale inglese. Sull’altare del malthusianesimo e dell’utilitarismo il vecchio mondo rurale scompare, travolto dal sistema di fabbrica e dall’annichilimento della working class, stretta tra lo sfruttamento bestiale e le poor houses di dickensiana memoria.

Ecco quindi che, una volta trionfato in patria, il Capitale necessiti di espandere il proprio dominio- ideologico, ancor prima che materiale- su porzioni via via crescenti dell’economia-mondo. In Cina la civile Albione non si periterà di drogare milioni di cinesi- in una curiosa anticipazione dell’operazione Blue Moon– per aprire alle merci la via del celeste impero. In Africa il colonialismo britannico riuscirà a creare un unico spazio dal Cairo fino al Sud Africa. In Europa, ove i metodi dovevano per forza essere differenti, sarà l’ideologia liberale, con la costruzione e la diffusione della religione dell’economia politica classica, a diffondere il verbo del libero scambio. L’apogeo dell’impero britannico coincide con la massima potenza della sterlina e del sistema aureo: da industriale il capitalismo albionico diventa finanziario, costruendo nella city di Londra la cittadella fortificata del dominio mondiale. La produzione manifatturiera cede il passo all’alta finanza: nel classico schema di ogni ciclo di egemonia, il segnale dell’autunno è dato dal passaggio del capitale dalla forma di accumulazione manifatturiera, in cui è conveniente e profittevole investire nella produzione e nello scambio di merci (D-M) alla forma finanziaria di accumulazione (D-D’), in cui il guadagno viene prodotto dall’investimento del capitale eccedente in capitale produttivo d’interesse. In sostanza, la potenza egemone impone la propria moneta e le proprie istituzioni finanziarie ai dominati: altri, arrivati dopo e al momento sottomessi, prendono il posto nella catena globale della produzione e nello scambio. Fintanto che la forza del dominus imperiale riesce a garantire il dominio del sistema finanziario sulle attività reali, le materie prime e tutto ciò che necessita al centro vengono forzatamente forniti dalla periferia: l’imperialismo è insieme necessità di mercati di sbocco e garanzia di fornitura delle materie prime. Messo in discussione, sotto la spinta di pressioni sociali o per via di tensioni internazionali con vassalli ormai troppo forti per essere succubi, il sistema va in crisi e si genera il caos. Tutta la storia del mondo moderno, dal Medio Evo fino al periodo 1914-1945, può essere letto nell’ottica di un conflitto permanente tra stati per garantire al capitale il maggior grado di accumulazione possibile.

La transizione impossibile

Il breve e per forza di cose incompleto riepilogo storiografico serviva a introdurre nella giusta prospettiva il problema attuale che attanaglia l’Europa. La crisi ucraina e, ancor prima, la gestione della pandemia hanno determinato una soluzione di continuità con il modello della cd. globalizzazione: le merci non sono più disponibili come prima, le materie prime sono sempre più scarse, i prodotti semifiniti scarseggiano e i prezzi di trasporto e di produzione schizzano a livelli inediti. In sostanza, il modello di libero scambio propagato da trent’anni di restaurazione liberale è andato in frantumi.

I gloriosi governanti europei hanno infatti scoperto che con la carta finanziaria non si riesce nemmeno ad accendere un falò. Novelli Mida in sedicesimo, hanno forse compreso che tra i modelli astratti delle università infami e la realtà corre un abisso. Aver delocalizzato tutte le produzioni nei paesi asiatici per inseguire lo spettro del profitto borsistico, come visto sopra, non è una tara di questo capitalismo, bensì una dinamica costante da quando esiste il capitalismo storico. Appare tuttavia notevole osservare come, per mere ragioni di stupidissima ideologia tardoborghese, l’unione europea voglia suicidarsi tagliando l’approvvigionamento di risorse energetiche fossili in favore di non meglio specificate “nuove fonti di energia”. Non ci meraviglia constatare come i mitici amici di Bruxelles ignorino come sia costruito un pannello solare (i minerali e i sistemi produttivi sono nelle disponibilità del vecchio continente?). Del resto, sono gli stessi incapaci a gestire l’inflazione da costi che essi stessi hanno determinato, con il rischio nemmeno tanto remoto di mettere in crisi l’intero sistema di accumulazione finanziario, uno zombie che si trascina grazie alle stamperie di Francoforte da quindici anni. La vicenda del rublo russo è indicativa: la squallida opinione colta nostrana pensava che una guerra potesse essere vinta con gli strumenti borsistici. Non avevano riflettuto- ammesso che ne siano capaci- che la Russia dispone di tutte le materie prime e delle principali fonti d’energia: “colpire” il tasso di cambio quando il nemico può chiudere i rubinetti e mandare in crisi definitiva l’intera industria manifatturiera continentale non pare una minaccia, ma un’idiozia degna dell’epoca in cui viviamo. Rigurgiti di malthusianesimo, rancori secolari contro quel minimo di benessere strappato dai lavoratori con la lotta di classe, bonapartismi da operetta: segnali, tutti, di un progressivo inasprimento del dominio sui subalterni, anticipato dalla criminale gestione segregazionista dell’inverno scorso in Italia tramite passaporto verde.

Ci troviamo, insomma, di fronte al definitivo redde rationem di un ciclo di egemonia, britannico prima e statunitense dopo, fondato sul monopolio del capitale morto sulla realtà viva. Chiunque ciarla di “capitalismo buono e liberismo cattivo” non riesce a capire che il trentennio fordista (D-M) era l’altra faccia di questo (D-D’). Contro l’Occidente impazzito si staglia la Cina che, lungi dall’essere la patria dei lavoratori, intende sostituire- e già lo fa- gli Stati Uniti nel dominio mondiale, partendo dal possesso esclusivo di tutti i principali prodotti minerari e manifatturieri: un nuovo ciclo si staglia all’orizzonte, con la consapevolezza che, senza grandi stravolgimenti sociali, le masse mondiali passeranno da un padrone all’altro.

Conclusioni

L’autarchia, parola-vergogna dal 1945 in poi, significa in primo luogo indipendenza, e indipendenza significa libertà.

“le esperienze si accumulano a dimostrare che, nelle relazioni tra gli uomini, la lontananza tra proprietà e amministrazione è un male, suscettibile a lungo andare di generare tensioni e inimicizie che finiranno col distruggere il calcolo finanziario. Di conseguenza, io simpatizzo piuttosto con coloro che vorrebbero ridurre al minimo il groviglio economico tra le nazioni, che non con quelli che lo vorrebbero aumentare al massimo.[1]

L’alternativa di sistema di cui parliamo non è un’utopia lontana e irrealizzabile, ma una sintesi logica e coerente di tutto ciò che la realtà ci consegna come preziosa testimonianza. In primo luogo, la necessità fondamentale risulta quella di riportare in Italia il maggior numero di produzioni e di industrie: solo un professore della Bocconi può ritenere razionale importare dal Bangladesh magliette piuttosto che produrle a Biella. Per re-industrializzare l’Italia occorrono però due condizioni: la repressione finanziaria e la programmazione economica. Sul primo punto, appare essenziale distruggere il modello associativo delle s.p.a, in quanto appare chiaro come la proprietà di azioni sia un mero strumento di speculazione e di dominio, totalmente scisso dalla vita dell’azienda.[2]

La proprietà delle società per azioni va socializzata, consegnando a chi ci lavora il diritto di proprietà (e di gestione) sull’impresa stessa. Da qui ne consegue che la nazionalizzazione del sistema bancario e la sua riforma in senso pubblicistico, eliminando quei coaguli di potere che sono le fondazioni e smantellando ogni legame estero dall’esercizio del credito nazionale. Una volta eliminato il ramo morto del capitale privato dalla vita produttiva, il Lavoro potrà esprimere in tutte le sue forme le capacità di progresso e di sviluppo, di ricerca e di avanzamento tecnico. La programmazione economica garantisce in questo quadro la fornitura delle materie prime e delle fonti energetiche, il pieno impiego della manodopera e l’utilizzo razionale del suolo e delle risorse. A completamento, il massiccio intervento sull’agricoltura, la pesca e l’allevamento dovrebbe garantire un grado crescente di autonomia alimentare, riportando l’Italia nella sua secolare tradizione di paese manifatturiero e artigiano.

Le ultime esperienze ci mostrano come la carta finanziaria, inesistente e impalpabile, assuma un valore ai nostri occhi soltanto perché ciò è necessario alla riproduzione del capitale e all’esercizio del suo dominio. Il denaro, però, non scalda e non sfama, non alimenta e non nutre, non costruisce e non abbellisce. Solo l’uomo, con la sua natura e il suo genio, la sua fatica e la sua volontà, può con il lavoro costruire la Civiltà e seppellire le barbarie. Riappropriarci della realtà, cacciando i mercanti dal Tempio e gli usurai dalla vita pubblica, rappresenta il compito essenziale e finale della nostra epoca. Sfida titanica, certamente, ma solo chi è abituato a strisciare non alza mai gli occhi in alto.


[1] J. M. Keynes, Autarchia economica

[2] “La separazione tra la proprietà del capitale e la reale direzione dell’impresa è già una cosa preoccupante all’interno di un paese, dove, come conseguenza della diffusione delle imprese in forma di società anonima, la proprietà è spezzettata tra innumerevoli individui che comprano la loro partecipazione oggi e la rivendono domani, e mancano totalmente così di conoscenza come di responsabilità per quello di cui sono momentaneamente proprietari. Ma quando il medesimo principio viene applicato su una scala internazionale, esso, nei tempi difficili, diventa intollerabile: – io sono irresponsabile verso ciò che possiedo e quelli che amministrano ciò che possiedo sono irresponsabili verso di me.” ibidem

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marco
marco
1 anno fa

Perfetto

Osservatore Romano
Osservatore Romano
1 anno fa

https://www.kissmovies.io/movies/ascension

tra la teoria e la pratica passano diversi strati, il più importante dei quali è noto come “strategia efficace”

lo
ciao
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