Manifestare, manifestarsi

La diatriba sull’utilità delle manifestazioni sta diventando stucchevole e irritante. Invero, la situazione di pressione che viviamo da quasi due anni sta facendo affiorare inaspettate virtù e prevedibili vizi. Uno di questi è il ghe pensi mi: questo proliferare di soluzioni magiche, azioni di forza, ricorsi miracolosi, rivelazioni scientifiche decisive – senza contare i leader, più o meno probabili, cui ci si aggrappa, con cadenza settimanale, come a salvatori della patria, che dico, del mondo.

Scatti di nervi, nient’altro che scatti di nervi di chi, anche comprensibilmente, non si rassegna ad accettare lo spaventoso squilibrio nei rapporti di forza che vede da una parte un Potere mai così forte nella storia umana, sotto il profilo tecnologico, mediatico, organizzativo, e se vogliamo anche psicologico – nella misura in cui sembra aver perso ogni scrupolo nel perseguimento del controllo collettivo senza limiti né legali né morali; dall’altra, un coacervo di posizioni dissenzienti magmatico, ancora in formazione, contraddittorio, a tratti confuso.

Un coacervo che potrà diventare opposizione politica solo con uno sforzo, letteralmente titanico, di elaborazione e organizzazione. Occorre avere pazienza, mentre si lavora a ritmi forsennati, sovrumani, nella lotta contro un tempo che potrebbe anzi sta per riuscire a fermarsi e a non far sorgere mai il domani.

Né sarò io a proporre l’ennesima “soluzione definitiva”. Mi limito solo a riflettere su un unico punto: il suddetto squilibrio – evidente a chiunque ma trascurato dai più – impone di non scartare a priori nessun’azione, sia sotto il profilo della persuasione scientifica, sia sotto quello dell’azione giudiziaria. Tuttavia, stiamo vedendo l’esito quasi sempre misero dei vari ricorsi e petizioni, delle “soluzioni immaginative” di avvocati più o meno rampanti, annichiliti, sbertucciati da istituzioni amministrative, giudiziarie, mediatiche ben amalgamate e omologate al sistema.

Istituzioni, pezzi dello Stato, gruppi di potere, centrali mediatiche e finanziarie, asserviti da venti, trent’anni di cooptazione politica e di corruzione economica ad opera dell’oligarchia, principalmente di un Partito democratico (e suoi “cespugli”) che è riuscito a colonizzare, infiltrare, pervadere ogni settore dell’attività sociale e politica, così da arrivare a governare il Paese, a volte apertamente, altre de facto, con una forza elettorale che si aggira su non più del venti per cento.

Ora, è chiaro che, trattandosi di un problema politico, di reset sociale (e giocoforza economico) da attuarsi attraverso misure politiche, la risposta principale non può che essere anch’essa politica. E la base della lotta politica è l’aggregazione, la presenza fisica di persone e di coscienze. In tal senso, la principale forma di protesta, la più efficace, è proprio la manifestazione, statica o in corteo.

Quest’efficacia dipende da vari fattori, che girano tutti intorno all’idea di visibilità: una massa compatta in piazza rende visibile l’esistenza stessa di un dissenso, funziona cioè da elemento di riconoscimento verso l’esterno, e di auto-riconoscimento verso l’interno, concretamente verso noi stessi: aspetto cruciale che sarebbe gravemente erroneo sottovalutare, perché contrasta, fa da argine al senso di isolamento socio-politico e di solitudine esistenziale che molti stanno vivendo in questi tempi di tendenziale e sempre più aggressivo “pensiero unico”.

La “piazza” ha insomma una funzione sia di “propaganda” che di rinforzo del morale, sostegno delle convinzioni.

L’efficacia riguarda però anche il livello organizzativo: dalle manifestazioni stanno nascendo i Coordinamenti cittadini no green pass, che in nuce possono profilarsi come le strutture per articolare e dar forma al dissenso, a partire dal basso e dalle realtà locali, dove storicamente in Italia si sono sviluppati i movimenti di opposizione.
Con buona pace del mainstream al servizio del potere, si rivela così qualcosa che il potere non potrà mai avere e che c’invidia segretamente: l’autenticità, il carattere cittadino, popolare, non artificiale del nascente dissenso diffuso.

Un carattere spontaneo, che non significa improvvisatore o bizzarro, ma indica che il dissenso è la risposta naturale, spontanea appunto, della parte più avvertita, garantista e umanista del corpo sociale, una risposta che viene dal basso, in contrasto con l’acquiescenza e la subalternità di istituzioni, come i sindacati, che avrebbero dovuto farsi carico dell’emergenza democratica in atto e che nella quasi totalità sono invece appiattiti sulle politiche governative.

Se queste istituzioni sono assenti, allora bisogna che la difesa della democrazia sia presa in carico da un nuovo soggetto politico che articoli e dia forma al dissenso, partendo da un nucleo condiviso di rifiuto della proposta distopica del potere e ricerca di nuove proposte che sappiano dare risposte plausibili alla crisi che ci ha condotti nei gorghi in cui ci troviamo.

L’inizio e il motore di questo processo sono e saranno le piazze: se sappiamo riempirle ci porteranno molto, molto lontano.

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