Le parole come manganello e come tabù: il populismo

Nell’articolo precedente, abbiamo parlato dei “grandi concetti” quali “giustizia”, “democrazia”, “popolo” come paradigmi di significanti orfani di significato che Ernesto Laclau definisce “significanti vuoti”¹.

Questi vengono usati come clave e come tabù, per delimitare i confini dei recinti nei quali vengono confinate le possibilità del discorso: una sorta di retorica escludente che annulla qualsiasi dialettica (e, pertanto, ogni dibattito). Qui non stiamo parlando solo della dittatura del “politicamente corretto”, totalitarismo depurato della violenza materiale, che esclude intere regioni concettuali dal dicibile e le trasforma in una sorta di terra di nessuno nella quale è proibito addentrarsi (se non a proprio rischio e pericolo), ma di una vera e propria strage semantica, che si è fatta particolarmente virulenta in questi ultimi anni.

Cominceremo con la sfera politica perché è uno dei territori nei quali questo fenomeno è più evidente, non solo a causa dell’ovvio utilizzo strumentale delle parole che si verifica in quest’ambito, ma anche perché questa è una sfera piuttosto incombente nell’universo dei media. Pertanto, costituisce una sorta di avanguardia nella trasformazione della lingua da strumento di comunicazione a strumento di strutturazione delle emozioni e dell’immaginazione delle masse (in senso pavloviano). In quest’ambito la “dittatura dei significanti” è particolarmente accentuata, a causa della semplificazione del messaggio retorico alla quale sono obbligati coloro che ne fanno parte.

Possiamo subito iniziare con la dicotomia politica principale della modernità, quella che, apparentemente, ha tracciato i confini dei territori belligeranti alla stregua di uno spartiacque ontologico. Spendiamo il termine “ontologico, che potrebbe sembrare un po’ esagerato in questo contesto, perché, in realtà, il confine suddetto non delimita solo fazioni in lotta tra loro ma, soprattutto, un vero e proprio “campo di impossibilità” (identificato nello schieramento opposto) non solo come appartenenza politica, ma come esclusione dall’ambito del possibile che è una sorta di “orizzonte degli eventi” che separa il Bene dal Male, il Cosmo dal Caos.

In realtà, nonostante la rilevanza “ontologica”, questa dicotomia è un esempio calzante di “significanti vuoti”, per diversi motivi. Intanto il loro significato è dibattuto, sin dai primordi della loro proteiforme storia, visto che i due campi si sono più volte manifestati nel loro opposto, fino ad essere, in epoca recente, ridotti a semplici recinti di appartenenza senza più alcuna definizione che sia realmente descrittiva, almeno dal punto di vista politico.

Inoltre, viviamo in un’epoca nella quale la politica, nel senso proprio del termine, è stata espunta e sostituita dall’assai più confortevole “There is no alternative” (Margareth Thatcher), ovvero “tanto non si può fare nulla”. Questo confina l’agire politico in una pedestre “governante”, un’”amministrazione condominiale” della cosa pubblica, dal momento che la cogenza del determinismo economico delimita il campo di possibilità, manifestandosi comelex naturalis e, quindi, come destino ineluttabile: un inesorabile “vincolo esterno” che agisce come manifestazione della Provvidenza e determina le sorti dell’umane genti.

Proprio per questo (e non “nonostante questo” come potrebbe apparire ovvio ad alcuni) si è accentuato il proliferare di minuzie nominalistiche per definire gli schieramenti politici tanto che, la dicotomia iniziale (destra e sinistra), si è ulteriormente scissa in tetratomia che, ben lungi dall’apportare una superiore precisione tassonomica, moltiplica i significanti vuoti, con l’unica funzione di frammentare vieppiù gli altrettanto vuoti “campi di appartenenza”.

Parliamo ovviamente della coppia “destra moderata” (detta anche “centro-destra”) e “sinistra moderata” (detta anche “centro-sinistra”), e di quella “destra estrema” e “sinistra estrema”. Le prime due, le parti “moderate”, quelle che convergono verso un mai determinato centro (come nell’universo di Giordano Bruno), sono la realizzazione fattuale della coincidentia oppositorum, ovvero sono quelle aree di appartenenza che, nella finizione di opporsi l’una all’altra si attagliano perfettamente alla fisiocrazia politica vigente (ilthere is no alternative come stato di natura), tanto da essere intercambiabili.

E, infatti, queste categorie non vengono, in genere, né usate come manganello, né come tabù. Manganelli e tabù appaiono invece quando le parole “destra“ e “sinistra” vengono accoppiate all’aggettivo “estrema”.

Qui, però, occorre fare una distinzione, perché esiste una differenza piuttosto rilevante tra questi due campi d’appartenenza.

Il sintagma “estrema sinistra” identifica qualcosa di disdicevole ma, in fondo veniale, ragazzi un po’ irruenti ma, non cattivi, sognatori un po’ ingenui che non hanno ancora capito come funziona la “vita vera”, in quanto intrisi di una sorta di maldestro idealismo adolescenziale, un complesso di Edipo irrisolto nei confronti di quel padre autoritario che è il “potere”.

Negli anni ’70 costoro erano i “compagni che sbagliano” ma, anche se la loro “diritta via era smarrita”, erano pur sempre compagni, quindi, dal punto di vista ideologico, il loro era un peccato veniale (pur se dal punto di vista fattuale, ebbe anche conseguenze letali). Ma, in fondo, erano innocenti errori di gioventù dovuti all’instabilità caratteriale tipica dell’età che, senz’altro, era destinata a guarire con la maturità che, si sa, reca sempre con sé la “moderazione”.

Infatti, i compagni “maturi”, quelli che “non sbagliano”, fanno parte della “sinistra moderata”, anche quando questa è definita “sinistra radicale”, che, di fatto, è una sinistra moderata, ma è più puerile e frivola nella scelta dei temi politici e delle modalità comunicative (fanno girotondi, si vestono con strani colori come il viola o l’arancione, ostentano le mammelle in pubblico, praticano riti di autocastrazione simbolica, indugiano volentieri in pargoleggiamenti privi di senso, ecc.).

Altro, invece, è il discorso se si parla di ”estrema destra”.

Quest’ultima è ritenuta inequivocabilmente da condannare, “senza se e senza ma” (Benjamin avrebbe scritto, più elegantemente, “sans rêve et sans merci”), è quasi un’eggregora del male metafisico. I suoi aderenti sono sub-umani rozzi e abietti che, in una “società davvero progressista”, sarebbero estromessi dal consesso umano. Costoro sono associati ad ogni nefandezza, e ogni nefandezza è ad essi attribuita: ignoranza, violenza, tribalismo, egoismo, arretratezza ( e quale peccato è più grave direcalcitrare a seguire il luminoso moto del progresso?). Sono i dannati della terra, i deplorevoli (deplorables) del nostro tempo, al di fuori dall’orizzonte del possibile che delimita il consorzio umano: sono letteralmente disumani.

Tant’è che, in loro presenza, si attivano subito gli anticorpi cosmetici sotto forma di quell’”antifascismo in assenza totale di fascismo” più volte descritto da Costanzo Preve, che assume sembianze sempre più comiche con l’andar del tempo, come quella degli “Antifa” d’oltre oceano che non esitano a identificare come “fascista” anche una figura storica come quella di Cristoforo Colombo.

Mentre la caratteristica della sinistra è quella di amare un astratto “universale” e “globale” (disprezzando, peraltro, ciò che è particolare e prossimo), il che è molto à la page nell’epoca di progressismo frou-frou che si accompagna al totalitarismo del capitale; l”’estrema destra” avversa l’universale e il globale magari per amore della Patria (orrore!), delle usanze e delle tradizioni (doppio orrore!).

Un attributo quasi immancabile per questa “destra” (ma che, sempre più frequentemente, è associato anche a certa “sinistra”, anche e con un’accezione meno dispregiativa) è quello di “populista”. E, infatti, il termine “populismo”² è uno dei migliori esempi di significante vuoto perché, seguendo anche qui Giordano Bruno, «il termine è ovunque e il suo significato in nessun luogo». Tant’è che, per riuscire ad attribuirne uno, bisognerebbe risalire alla seconda metà dell’ottocento e al movimento deinarodnik (danarod, termine russo per “popolo”) che si propose di mobilitare la popolazione contadina sfruttata contro le oligarchie sfruttatrici.

Tuttavia, in tempi assai recenti, il termine “populismo” ha la sola funzione di manganello, ovvero: «un concetto che pretende di assimilare screditando, di condannare denigrando»³.

Nell’opera di costruzione di questo significante-manganello, Alain De Benoist individua tre fasi: prima si sono definiti “populisti” i partiti della cosiddetta “estrema destra”; poi, è stata usata per designare qualsiasi opposizione tra popolo e oligarchie; alla fine, la riprovazione del populismo è diventato, tout court, biasimo nei confronti del popolo4.

Perché il popolo, oltre che ignorante e bifolco, spesso è anche riottoso: ha l’ardire di mettersi di traverso alle decisioni delle oligarchie, specie quando si tratta di votare. A volte non bastano neppure legioni di “volonterosi carnefici” del “potere” arruolati in grande copia nei mezzi di informazione, nell’industria dell’intrattenimento e nell’accademia, per convincerli a seguire la retta via, che è quella tracciata dalleèlite. No, questi villici sono testardi, non imparano mai la lezione: sono un pericolo per la democrazia (sottinteso: la Démocratie c’est nous).

Il popolo è “fuori dalla storia”, è retrogrado al punto di non apprezzare le “magnifiche sorti e progressive” indicate dalle èlite, fatte di diritti individuali incontrastati e incontestabili (dei diritti sociali, nel frattempo, si è fatto strame), di moltitudini di creature gaudenti i cui desideri non devono conoscere limiti o ostacoli. Perché il destino del mondo è la “società aperta” nella quale ogni limite ed ogni confine saranno abbattuti (l’indistinto post-umano cosmopolita, senza genere o etnia) e il lupo si abbevererà con l’agnello (e forse l’uomo si accoppierà col cammello). Non si sa se diverremo tutti “cittadini del mondo” ma, sembra che buona parte del mondo sarà nostro concittadino, almeno se si osservano le tendenze “migratorie” di buona parte dell’orbe terracqueo.

E qui si apre un grande capitolo: i “populisti” e le “destre”5 vengono infatti associati alla “xenofobia”, e questa è diventata una caratteristica a tal punto imprescindibile, nella neolingua politicamente corretta, che il sintagma “destra xenofoba” viene pronunciato come se fosse un’unica parola: “destraxenofoba” (con la variante “destrapopulistaxenofoba”).

Naturalmente, il termine “xenofobia”, come il suo vicino semantico “razzismo”, è un altro significante vuoto (o significante-manganello), almeno nel modo col  quale viene adoperato6.

“Xenofobia”, paura dello straniero, che è un sentimento peraltro giustificato, nei confronti di qualcosa che non si conosce (e che non conoscono neppure le autorità preposte a conoscerlo, viste le modalità con le quali si verifica l’immigrazione, di questi tempi), è usato come se fosse “misoxenia”, odio per lo straniero. Il termine “razzismo”, dal canto suo, avrebbe bisogno di una complessa disamina storica per essere inquadrato con una certa precisione7. Nella accezione secondo la quale viene usato, è soltanto un manganello, funzionale a confinare in un reticolato di tabù qualsiasi discorso che riguardi il fenomeno dell’immigrazione nella sua versione attuale. Ma, di questo, parleremo nella prossima puntata.

[1] Ernesto Laclau, On Populist Reason, Verso, London-New York 2005
[2] Per una disamina del fenomeno del “populismo”, rimandiamo ai testi più recenti in italiano:

  • Carlo Formenti, La variante populista, Derive Approdi, Roma 2016
  • Alain De Benoist, Populismo, Arianna Editrice, Bologna 2017
  • Luca Ricolfi, Sinistra e Popolo, Longanesi, Milano 2017

[3] Federico Tarragoni, La science du populisme au crible de la critique sociologique : archéologie d’un mépris savant du peuple, Actuel Marx, 2013/2 (n.54)
[4] Alain de Benoist, populismo, Arianna Editrice, Bologna 2017
[5] l termine “destra”, se declinato al plurale, nella neolingua equivale a “destra populista”. Ad esempio, la Lega, pur se nosologicamente collocata nel “centro destra”, essendo stigmatizzata come “populista”, diventa fenomenologicamente “estrema”
[6] La “xenofobia” in senso proprio, è sempre esistita, e a ragione, vista la grande copia di invasioni, guerre e razzie che contraddistinguono la storia dell’umanità
[7] Il Pedante qui e qui.

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