La jatrocrazia come malattia terminale della scientocrazia

Viviamo in un tempo peculiare, nel quale è stato portato a compimento un rivolgimento di lungo periodo, iniziato alcuni decenni or sono, che ha portato alla trasformazione della pratica governamentale, così come la conoscevamo, ovvero quella determinata, almeno nelle intenzioni da una sfera politica che si presuppone informata da una dialettica democratica.

Questa gerarchia governamentale, nel corso del tempo, è andata sfilacciandosi, per essere sostituita, progressivamente, da una governamentalità d’impronta meccanicistica, sempre più determinata da coloro che sono definiti tecnici, i quali, però, pur mascherandosi dietro questa presunta – o semplicemente sbandierata – tecnicità, sono sempre stati latori di un’agenda politica, sotto mentite spoglie, ovvero di un fine che si accordava con una determinata visione del mondo.

Gli economisti

In principio furono Les Economistes, che furono il portato di un’epoca nella quale una struttura economica preminentemente

materiale (manifattura, produzione, trasformazione), con le proprie sovrastrutture politicamente determinate, cedeva il passo ad una forma diversa, quella dell’accumulazione immateriale della finanza, che necessitava di sovrastrutture culturali e politiche di diverso tipo (globalizzazione, ecc), per imporre un sistema che, nel tempo, si dimostrò assai meno favorevole per le popolazioni: un’accumulazione predatoria nei confronti della ricchezza precedentemente accumulata mediante l’espansione materiale che fu definita molto appropriatamente.
David Harvey, Accumulazione per espropriazione.

Negli ultimi anni, tuttavia, il raccontino economicista fatto di vincoli esterni e di descrizioni pseudo-naturalistiche della realtà sociale, ha mostrato la corda. Secondo il metodo scientifico terra-terra, qualsiasi teoria che, dopo innumerevoli esperimenti (sociali, in questo caso), non ne confermi la veridicità tende a perdere di credibilità; Quindi, non riesce più a convincere il popolo circa la bontà delle politiche che si conformino a cotali teorie.

Pertanto, la tecnica governale si è spostata su un altro ambito disciplinare, assai più intimo e, al contempo, pervasivo, ovvero a quello delle scienze della natura (in particolare, a quello che si occupa della natura vivente).

Scientocrazia

La Scientocrazia è, dunque, diventata l’estremo rifugio di un’azione di governo che non riusciva più a manifestarsi con sufficiente efficacia tramite l’economicismo.

Questo trasferimento di competenze governamentali è stato accuratamente preparato nel corso dell’ultimo lustro, in maniera ossessiva e quasi inavvertita dalla più parte delle genti, anche se vi erano numerosi sintomi facilmente riscontrabili: che cos’era, forse, la famigerata lotta alle fandonie (in inglese fake news), se non il tentativo di imporre una ferrea ortodossia, da congregazione per la dottrina della fede ad un ambito, quello scientifico, il cui metodo, fin dai tempi di Galileo, si è sempre fondato sul dubbio e sul suo superamento mediante la ricerca di risposte metodo?

La pandemia di Covid 19 si situa perfettamente in questo contesto scientocratico, in maniera che potremmo quasi definire provvidenziale, per il suo tempismo, fornendo l’occasione (che, si sa, fa l’uomo ladro) per instaurare uno stato di eccezione proprio nel bel mezzo di una delle più gravi crisi politiche, economiche e sociali del nostro paese (e del sistema-mondo tutto).
In questo stato di eccezione, la governamentalità surrogata si manifesta in tutta la sua goffaggine, a suon di atti amministrativi e circolari ministeriali nelle quali, surrettiziamente, si è gabellato un trasferimento di potere decisionale dalla sfera politica a quella tecnica (naturalmente, espressione di quella scienza monodimensionale propugnata dagli “esperti” cari al regime). Una vera e propria edpidemiocrazia, quindi.

Certo, nessuno nega qui la natura emergenziale dell’emergenza, tuttavia non possiamo fare a meno di notare che è stata messa in atto una pletora di provvedimenti contraddittori e poco efficaci, i cui risultati stanno innanzi agli occhi di tutti. E non ci si venga a dire che non vi è l’evidenza controfattuale, perché di evidenze scientifiche (o mancanza di esse) sbandierate dagli esperti, in assenza di qualunque prova controfattuale, è piena la cronaca di questi mesi.

Di fatto, la sfera politica ha preso la comoda strada di farsi portavoce di questi ventriloqui e di demandare le decisioni ad un principio jatrocratico, il quale, tuttavia, doveva scorrere nell’alveo di una costruzione meta-politica edificata in precedenza.

Documento SIAARTI

Ed è alla luce di queste considerazioni che è bene leggere il documento della SIAARTI¹ sulle RACCOMANDAZIONI DI ETICA CLINICA PER L’AMMISSIONE A TRATTAMENTI INTENSIVI E PER LA LORO SOSPENSIONE, IN CONDIZIONI ECCEZIONALI DISQUILIBRIO TRA NECESSITÀ E RISORSE DISPONIBILI, ed il dibattito che ne è conseguito, che si situa perfettamente in questo contesto

Ci pare che, per certi aspetti, l’attenzione che fu dedicata a tale documento sia stata alquanto eccessiva, dato che, la più parte di esso non sembra essere altro che un modo elaborato e parafrastico di definire il vecchio concetto di triage che è il metodo comune di operare sia in un contesto di emergenza sia in caso di eventi catastrofici. Non a caso fu formulato, per l prima volta nell’ambito della chirurgia di guerra.

Esso costituisce, né più né meno, un metodo per definire i criteri d’accesso alle cure, nel primo caso con priorità determinate dalla severità del quadro clinico (che è quello adottato nei dipartimenti di emergenza/pronto soccorso); nel secondo, determinate dalle possibilità di successo o di efficacia delle cure (che è quello adottato nel caso dei trapianti d’organo o nella medicina delle catastrofi). Nel primo caso è determinante il fattore tempo, nel secondo il fattore risorse.

Non vi è quindi, a nostro parere, alcunché di stigmatizzabile (ma neanche di particolarmente cruciale), nel ribadire che, anche nel caso dell’emergenza Covid 19 si possa arrivare alla necessità di adottare un criterio di triage del secondo tipo, piuttosto che del primo, ovvero, il documento non fa altro che ribadire il vecchio principio, descritto nel diritto romano che ad impossibilia nemo tenetur.

Perché, allora, ribadire ciò che è ovvio, come si può leggere nel seguente passo del documento in questione?

Le previsioni sull’epidemia da Coronavirus (Covid-19) attualmente in corso in alcune regioni italiane stimano per le prossime settimane, in molti centri, un aumento dei casi di insufficienza respiratoria acuta (con necessità di ricovero in Terapia Intensiva) di tale entità da determinare un enorme squilibrio tra le necessità cliniche reali della popolazione e la disponibilità effettiva di risorse intensive.

È uno scenario in cui potrebbero essere necessari criteri di accesso alle cure intensive (e di dimissione) non soltanto strettamente di appropriatezza clinica e di proporzionalità delle cure, ma ispirati anche a un criterio il più possibile condiviso di giustizia distributiva e di appropriata allocazione di risorse sanitarie limitate.

In realtà il criterio di idoneità clinica e di proporzione delle cure si applica quotidianamente, essendo entrambi concetti compresi in quello, più ampio, di appropriatezza, che riguarda non solo la condizione patologica, in quanto tale, ma in quanto riferita ad un paziente specifico.

È bene non dimenticare tuttavia, che il criterio di appropriatezza è, per propria natura, un criterio soggettivo, termine che non significa “arbitrario” ma, semplicemente, che è adottato dal soggetto, in questo caso il curante, che giudica le condizioni “oggettive” del paziente. Ovvero, è sempre il medico ad essere chiamato a valutare, in scienza e coscienza, l’appropriatezza delle cure che, di volta in volta, è chiamato a praticare ad ogni singolo paziente.

Qualora si pretendesse di trasformare il criterio di appropriatezza in qualcosa di avulso dalla singolarità del paziente, ovvero, qualora si cercasse di oggettivizzarlo, prescindendo, non solo dalla singolarità di questi, ma anche da quella medico preposto a valutare l’idoneità di una determinata scelta terapeutica (o astensione da essa), esso assumerebbe un carattere normativo e non più medico³.

Ebbene, nel documento della SIAARTI, si evidenzia (forse implicitamente) la velleità di linee guida normative per i propri associati, normatività che andrebbe a sostituire quelle aventi propriamente forza di legge, o addirittura dettati costituzionali:

Lo scopo delle raccomandazioni è anche quello:

  1. di sollevare i clinici da una parte della responsabilità nelle scelte, che possono essere emotivamente gravose, compiute nei singoli casi;
  2. di rendere espliciti i criteri di allocazione delle risorse sanitarie in una condizione di una loro straordinaria scarsità.

Può rendersi necessario porre un limite di età all’ingresso in TI. Non si tratta di compiere scelte meramente di valore, ma di riservare risorse che potrebbero essere scarsissime a chi ha in primis più probabilità di sopravvivenza e secondariamente a chi può avere più anni di vita salvata, in un’ottica di massimizzazione dei benefici per il maggior numero di persone.

Ed è qui che risiede l’ingenuità che informa questo documento, perché un criterio normativo di tal fatta non può essere stabilito in un contesto tecnico, quale è quello medico, del tutto inappropriato all’uopo, ma in quello legislativo che è, in ultima analisi, politico.

A questo punto è bene fare alcune considerazioni per cercare di svolgere un poco il pericoloso ginepraio nel quale questo documento, pur con le migliori intenzioni, rischia di invischiare non solo la categoria alla quale si rivolge (e sarebbe il meno), ma l’intero rapporto tra pratica medica e sfera politico-normativa.

L’epidemia di Covid 19 ha determinato una grave emergenza, tale da sopraffare, in determinate aree, la capacità di reazione efficace del sistema sanitario. In particolare, il collo di bottiglia è costituito dalla capacità di accesso e cura dei reparti di terapia intensiva, i quali si sono trovati, drammaticamente, nella necessità di effettuare un triage dovuto alla scarsità di risorse.

Come sottolinea Giuseppe Gristina, uno degli autori del documento, sul Quotidiano Sanità del 9 marzo 2020:

Dopo più di dieci anni di definanziamento del SSN pari a circa 37 MLD di euro e la riduzione del 30% dei posti-letto ospedalieri, trovarsi nella condizione di dover scegliere tra due o più malati quale ricoverare perché il posto disponibile è uno solo, è un evento comune per gli anestesisti-rianimatori.

Non si può, quindi, sorvolare sul fatto che questa situazione non è solo dovuta all’emergenza epidemica, ovvero all’elevato numero di pazienti, con condizioni estremamente severe, che accedono ai nosocomi, nell’unità di tempo, ma anche a causa delle decisioni scellerate effettuate dalla classe politica, negli ultimi decenni, che hanno portato ad un ridimensionamento e alla riorganizzazione del Servizio Sanitario Nazionale (peraltro, regionalizzato), condizioni che si sono esacerbate con l’avvento del governo Monti e di quelli successivi, caratterizzate da tagli e accorpamenti, chiusura di nosocomi e imposizione del criterio del risparmio sopra ogni altro.

Va anche ricordata, a questo proposito, la diminuzione del personale sanitario, causato non solo dalle riduzioni dei finanziamenti al SSN, ma anche dagli ostacoli all’accesso alle facoltà di medicina ed alle scuole di specializzazione (numero chiuso definito con criteri eccessivamente restrittivi), dovuti entrambi all’imposizione delle normative europee in materia.

Di fatto, si è subordinato il criterio di qualità delle cure, secondo criteri medici (gli unici che dovrebbero essere adottati, in questi casi), a logiche meramente economicistiche, che non riguardano soltanto il contenimento delle spese, ma si dipanano verso fantasiosi orizzonti aziendalistici come il criterio di produttività o di efficienza economica (numero di prestazioni per unità di tempo, per fornire solo un esempio tra i tanti).

Naturalmente, non stiamo dicendo che i limiti economici non esistano, così come esistono i limiti termodinamici (dei quali, l’estremo, per gli esseri viventi, è la morte), tuttavia siffatti criteri, quando diventino preponderanti, esulano da quelli che dovrebbero essere propri della pratica medica.

I rapporti tra Ars medica e politica

A questo punto, tuttavia, si pone una questione cruciale, ovvero quella del surrettizio ed improprio spostamento di competenze tra la sfera tecnica (medica, nella fattispecie) e quella politica.

Questo spostamento si è manifestato in diversi ambiti, ed è un portato della concezione neoliberale dello stato, che vede quest’ultimo come un’azienda nella quale vi sono diverse sfere di competenza governate da una gerarchia meramente funzionale volta a perseguire il fine aziendale (la mission, per i fessi).

Tuttavia, contrariamente a quanto sostengono le sciocchezze economicistiche ribadite in questi ultimi decenni, lo stato funziona in modo diverso, le decisioni politiche (e la formazione dell’accesso alle cure è una decisione politica) non devono spettare ai tecnici ma ad entità elette dalla cittadinanza che operano con vari sistemi di deliberazione e di controllo: nessuna visione particolare tanto meno quelle degli “esperti” o dei “tecnici” deve poter decidere circa l’indirizzo di un sistema sociopolitico complesso come può essere uno stato.

Sarebbe pertanto esiziale farsi guidare in modo prevalente da costoro, nell’illusione di determinare, mediante le verità scientifiche quali dovrebbero essere le buone politiche.
Anche in questo caso, la sfera politica abdicherebbe al suo ruolo per sottomettersi a ciò che abbiamo definito vincolo esterno: la scienza, o meglio, Lascienza, intesa come principium auctoritatis che si esplicita tramite intermediazione degli «esperti, non può essere il principium individuationis della sfera politica che, per propria natura, è il punto di incontro e mediazione di visioni e interessi diversi, spesso contrapposti»[4]

La favoletta imposta negli ultimi decenni dice: lo stato deve farsi sempre più piccolo, ritirarsi da molte delle sfere di competenza occupate precedentemente, quindi, sta a voi tecnici e amministratori decidere.

La sfera politica ha deciso che si dovesse tenere una determinata linea economica (ce lo chiede l’Europa). Ha quindi creato una condizione di scarsità artificialmente indotta, per ciò che riguarda il Sistema Sanitario, dotandolo di risorse che erano a malapena sufficienti (e molto spesso non erano neppure) per le condizioni di ordinaria amministrazione.

Pertanto si sono rivelate drammaticamente insufficienti (tralasciando i pasticci effettuati dal governo centrale) in una condizione di emergenza come quella provocata dall’epidemia di Sars Cov 2.

Tuttavia, come ben rileva Ivan Cavicchi sul Quotidiano Sanità del 12 marzo 2020:

Mi limito a rivolgere agli anestesisti una domanda: le condizioni limitate in cui lavorate, a partire dal dato cronico dell’insufficienza del numero delle terapie intensive e dalla mancanza di anestesisti, vi è stato imposto dalla politica, tuttavia per tacita convenzione esse vi hanno dato pragmaticamente il potere di vita e di morte sulle persone, potere, che la politica tollera perché voi anestesisti vi prendete, per suo conto, delle responsabilità anche di ordine morale indicibili e che a mio parere vanno ben oltre il vostro mandato deontologico. […]

Quindi, Io ritengo che la politica e questo Stato si devono riprendere la responsabilità morale di decidere oltre l’ordinaria complessità clinica, come trattare i malati cioè se dare o non dare loro il diritto di vivere»

Nonostante i limiti di cui abbiamo parlato e nonostante che questa drammatica esigenza di selezione sia dovuta, in gran parte ad un’agenda politica che si è dipanata nel corso degli ultimi decenni, la sfera politica ha scientemente scaricato la responsabilità sui medici (come, nei diversi ambiti, su tante altre categorie agenti nel servizio pubblico), imponendo loro l’onere della scelta e l’onere di una responsabilità che va ben oltre l’ambito, non solo deontologico, ma anche del dettato costituzionale (la discriminazione della vita degna di essere vissuta).

Ricordiamo che l’articolo 32 della Costituzione stabilisce che «la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività» ovvero che tutti i cittadini siano uguali e vadano curati senza discriminazioni a priori.

La risposta dei medici a queste implicito ed improprio trasferimento di competenze e responsabilità, dovrebbe essere un fermo Non debemus, non possumus, non volumus: non dobbiamo sostituirci al legislatore, non possiamo essere chiamati ad ignorare l’articolo 32 della Carta Costituzionale, perché non è nostro compito decidere chi sia meritevole delle cure, se non secondo criteri strettamente clinici.

Non vogliamo essere costretti ad operare in un contesto disegnato per seguire i soli contesti economicistici che rimandano ad assurdi vincoli di bilancio, che non sono oggettivi, ma rispondono ad una visione del mondo imposta dall’esterno (ce lo chiede l’Europa) e costruita da generazioni di politici che hanno fatto del tradimento la loro professione di fede.

Ma, soprattutto non dobbiamo accettare questo scarico di responsabilità da parte della sfera politica, la quale sta nascondendo la propria inadeguatezza e le proprie pulsioni totalitarie dietro ad una raffazzonata scientocrazia, ovvero dietro ai dettami di quella selezionata combriccola di “esperti” la cui scienza non ha nulla di scientifico ma è portato dell’agenda politica dei loro padroni, creando il cortocircuito di una politica che finge di dipendere da una scienza monodimensionale la quale, a propria volta, dipende da una determinata visione politica (e abbiamo già visto queste contorsioni quando, nella veste di tecnici, vi erano Les Economistes).

1 Società Italiana di Anestesia Analgesia Rianimazione e Terapia Intensiva
2 Ovvero, oltre un certo limite, un carattere che andrebbe al di là dei concetti di “linee guida” o di “gold standard”
3 Il Pedante, P.P. Dal Monte, Immunità di legge, Arianna Editrice, Cesena 2019, p. 173

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