La buona crisi e la cattiva crisi a scuola

E facile oggi constatare come la funzione educativa della scuola si stia progressivamente esaurendo. E stata per così dire svuotata dalla volontà politica di trasformare listituzione pubblica in un luogo che non sarebbe affatto sbagliato definire, fondamentalmente, burocratico e orientato da principi aziendalistici. Luogo di misurazione delle competenze, di selezione delle eccellenze e contenitore obbligato di un disturbo nellapprendimento (Dsa) che tocca oggi un gran numero di bambini e di giovani. Disturbo, è bene dirlo subito, a cui la stessa istituzione partecipa largamente perché possiamo a buon diritto affermare sia essa stessa affetta da una sorta di disturbo specifico dellinsegnamento.

Non c’è stato un disegno di legge per trasformare la scuola in questo senso. Mi pare invece si tratti di una spinta ideologica (e politica) suscitata e domandata anche da una psicologia che riconduce l’essere umano ad un modello biomedico.

Questa psicologia ha un evidente    effetto sulla concezione della pedagogia e della didattica tradizionale come l’abbiamo sperimentata in un altro tempo.

La funzione educativa non è un accessorio culturale a cui si può rinunciare senza conseguenze drammatiche. E’ un fatto strutturale che riguarda non solo lo studente da educare, ma l’umano. Senza funzione educativa a scuola, il legame con lo studente si ristruttura in una sorta di automatismo. Perde le ragioni della sua particolarità. Lo studente diventa uno standard.

Da sempre, la psicoanalisi freudiana non si illude, però, che l’educazione sia una pratica miracolosa o la cura dei mali a scuola o in famiglia. Anzi, al contrario, ritiene l’educazione un mestiere sempre fallito, ma assolutamente necessario.        Freud definisce l’educare un mestiere impossibile. L’esperienza empirica del genitore lo sa bene. Non c’è troppo bisogno dell’esperto. Non è possibile che il genitore sappia in anticipo chi sarà e cosa farà il figlio nella vita futura e, tuttavia, non si sogna di abbandonarlo a sé stesso e di non trasmettere con forza le sue credenze, le sue norme. E’ un fatto spontaneo sul quale la formazione accademica del genitore ha ben poca presa anche se c’è molta illusione al riguardo.

Leducazione (scolastica) ha dunque un buco nel sapere. C’è un nonsapere. Ad esempio, chi ha successo a scuola, spesso non ha successo nella vita. E viceversa.

L’educazione familiare è addirittura il teatro storico della nevrosi freudiana, cioè del conflitto. Lo stesso dicasi per la scuola. I legami di amore e di odio che permeano le relazione tra gli studenti, tra loro e gli insegnanti e, soprattutto, tra gli operatori scolastici sono causa di conflitto che non si può evitare (e che non si deve ignorare).

Educare è orientarsi in questo conflitto. Educare provoca conflitto. E’ cioè una sorta di buona crisi nella quale è immerso inevitabilmente l’umano.

Lo spazio logico creato dal buco del non-sapere insito nella funzione educativa è oggi mal tollerato dagli operatori a scuola perché non vengono avvertiti i suoi enormi vantaggi, ma solo il lato di vuoto non accettabile (quell’ignoranza di cui scrive Lacan nel testo Il mio insegnamento), assolutamente da negare, da colmare. Educare diventa allora un mestiere sporco, da evitare. Ciò che viene a sostituirlo, è la tesi che sostengo, è una relazione educativa molto peggiore della funzione, fondata su un sapere sempre più completo, competente. Più comoda, più rassicurante e soprattutto, più maneggevole. Standardizzata. Uguale per tutti. E’la cattiva crisi della scuola. Nella scuola delle competenze il sapere tecnico           e la burocrazia attuano allora uno spostamento fondamentale. L’oggetto dell’atto educativo diventa il soggetto da educare, o da curare, non più il legame stesso tra chi educa e chi è educato.

Le correnti di amore e di odio possono essere ignorate. Non sono più oggetto di discorso e di formazione. Sono invece ostacoli da rimuovere. La storia personale dello studente, al massimo, diventa anamnesi medica. La sua persona viene a coincidere con la sua volontà ed il suo comportamento. Si annulla la fondamentale differenza tra di loro. E’ come se il soggetto umano venisse a coincidere con la sua biologia. I difetti personali dell’insegnante diventano macchie o colpe da nascondere nel curriculum, non oggetti preziosi della sua futura crescita. Egli deve essere adulto e competente in quanto ha punteggio e titolo accademico. E’ di fatto già esperto della relazione. Ne la Psicologia del ginnasiale (Opere,1914), Freud scrive di ricordare i difetti dei suoi professori, non i loro pregi o le loro competenze oratorie. Le piccole bizzarrie, le stranezze e gli errori del personaggio in cattedra facilitavano l’insegnamento perché mostravano la persona, il tratto umano. La persona faceva funzionare il personaggio. La legge tutta di un pezzo va bucata. Prendere in giro il professore diveniva la licenza, la trasgressione che si annodava alla norma, alla legge dell’apprendimento. Allora di tutt’altra durezza, ma più rispettabile.

La standardizzazione diffusa e l’eccesso di attenzione alla competenza non promuovono oggi quel buco nel sapere che permette almeno un certo grado di curiosità. Motore dell’apprendimento. Probabilmente ciò che accadeva a Freud accade ancora in certi casi, ma il legame educativo si è standardizzato.

Linsegnante, lo verifichiamo tutti, entra sempre più difficilmente in gioco come persona, come soggetto con i suoi difetti ed accetta spesso di essere sostituito dal protocollo, dallelemento rassicurante. La norma, la valutazione, la scheda di osservazione, la diagnosi di disturbo dell’apprendimento. La legge sulla riservatezza che, pretendendo di annullare gli equivoci, li trasforma in reati. La conseguenza immediata di questo passaggio è che salta il patto educativo tra lo studente e la scuola che, anzitutto, è un patto simbolico. Lo specifico delleducazione, secondo la tesi psicanalitica, non consiste semplicemente nel trasmettere il rispetto della norma, impossibile assicurarlo e impossibile attuarlo per tutti nello stesso modo, ma nel dare la possibilità al piccolo duomo di essere meno esposto ad disagio della civiltà perché tale disagio lo colpirà comunque. Leducazione non evita il disagio, ma spinge il soggetto a farsi da sé attraverso la via che gli viene indicata. Via che è per lui, ma anche non perfettamente per lui o, addirittura, non adatta a lui. Egli riceverà un esempio, ma dovrà comunque farsi da solo, scontrarsi con il disagio della civiltà.

Cosa accade quando, in famiglia e a scuola, una collettività non vuole o non riesce più ad essere il modello che il bambino deve prima accogliere e poi rifiutare e rettificare? Cosa genera l’attuale relazione educativa quando è privata della sua specifica, insostituibile funzione?

Sopratutto, che fare?

Cercherò di testimoniare di una possibile risposta all’ultima domanda in questa parte terminale della mia riflessione, parlandovi del caso di un bambino di sei anni.

Federico. Prima elementare.

La mamma arriva a consulto in una situazione abbastanza drammatica. Il papà del bambino ha abbandonato la famiglia improvvisamente, senza troppe spiegazioni. Nessuno sa se abbia incontrato una nuova compagna. Si crea nella coppia una inedita rabbiosa tensione ed un conflitto dove litigi ed insulti sono all’ordine del giorno. Spesso papà e mamma urlano al telefono. Si dicono cose pesanti. La mamma chiede spiegazioni che non arrivano mai. Federico ed i fratelli assistono passivamente. Per alcuni mesi, sono esposti alla delusione, all’aggressività della mamma ed allo stato di incertezza e di colpa del papà. Questi rimane sempre disponibile e tenero con i figlio, ma in uno stato di confusione come fosse caduto in qualcosa più grande di lui. Non dà spiegazioni del suo atto improvviso. Non ne parla. A metà anno scolastico, Federico viene segnalato dalle insegnanti per l’improvvisa difficoltà a leggere le parole lunghe ad alta voce (attività richiesta esplicitamente dalla maestra di italiano a tutti i ragazzi) e per una sorta di imbarazzo e di ritiro generale. Non smette di leggere, solo è incerto e lento. Inoltre, non sente più bene alcune parole lunghe e le scrive confondendo alcune lettere. Cosa, questa, rivelatasi non esatta e, comunque, del tutto occasionale. Quando un insegnante volontario al di fuori del contesto scolastico gli detta alcune parole lunghe in occasione dello svolgimento dei compiti, Federico le ascolta, le sente bene e le scrive correttamente. Anche un profano capirebbe che il bambino ha ascoltato qualcosa in casa qualcosa che lo ha colpito, imbarazzato. In più, non gli è stato detto qualcosa di importante. Sa e non sa.

La scuola insiste perché la madre si rivolga ad una équipe di neuropsichiatria infantile perché si dice certa della presenza di un disturbo dell’apprendimento, Dsa. Viene diagnosticata una lieve forma di dislessia in un quadro di disturbo della lettura.

Il collegamento con il recente dramma familiare non viene fatto. Tre maestre, il dirigente scolastico e un’intera équipe neuropsichiatrica non chiedono al bambino se a casa fosse accaduto qualcosa. E nessuno si interroga sulla temporalità di ciò che Federico mostra a scuola. Come mai ad un certo punto dell’anno? Gli operatori seguono semplicemente un protocollo. Non chiedono neppure alla mamma. L’anamnesi familiare della diagnosi Dsa riporta che i genitori si sono separati, ma omette del tutto ciò che è accaduto. Il dramma familiare di Federico non ha avuto una scena linguistica dove svolgersi. Quindi, è andato           a toccare il corpo, anche se non in forma effettivamente patologica. Semplicemente, Federico rallenta, diventa introverso e meno collaborativo. Si distrae e legge talvolta in classe in modo difettoso.

Potremmo dire che, comunque, rimane perfettamente sano!

Un certo livello di disagio o di dolore è già un tentativo di cura.

Vi propongo di pensare che la risposta data dalla scuola a Federico non sia una effettiva risposta della pedagogia, ma un evitamento, indirettamente suggerito da un modello biomedico. Si tralascia ciò che non appare, ciò che non è visibile. Il buco del sapere viene ignorato e, quindi, non c’è nulla da cercare. Non c’è domanda su Federico. Si suppone che le capacità cognitive (il sistema nervoso) del bambino abbiano un disorientamento temporaneo che va necessariamente     ripristinato con le misure comportamentali e didattiche suggerite dalla diagnosi Dsa.

E’tutto molto rassicurante e coincidente con il protocollo scientifico. Si evita il rischio, anche. Non si vanno infatti a toccare temi difficili e poco chiari. La riservatezza, la privacy, è salva.

Intervengo ad un certo punto del percorso scolastico di Federico sulla base di una domanda della madre. Dico al bambino, nel momento opportuno, che non soffre di alcuna malattia e che è del tutto normale avere qualche cambiamento a scuola visto ciò che è successo in casa (nel frattempo la mamma aveva parlato e spiegato la situazione con le dovute parole). Di fronte alla mamma, propongo a Federico di fare qualche volta i compiti con un professore che conosco, molto interessato a lavorare un po’ con lui. Non perché abbia difficoltà di apprendimento, ma per aiutarlo in un momento difficile della sua famiglia. Gli chiedo se sia d’accordo. La mamma lo è. Gli dico di pensarci e di farmelo sapere dalla sua mamma oppure di dirmelo una delle volte in cui ci vedremo. Il lavoro con il professore inizia quasi subito. Qualche incontro non troppo impegnativo. Anzi, divertente per Federico che lega subito con il nuovo insegnante con cui fare i compiti. Si rassicura e ritrova la voglia di fare. Dobbiamo sottolineare che le misure e gli strumenti previsti dalla diagnosi Dsa per affrontare il disturbo accertato, fondamentalmente attraverso una batteria di        test, consigliano o prescrivono alla scuola di limitare una dettagliata serie di attività didattiche in quanto l’alunno non sarebbe in grado di avere e mantenere la prestazione al livello atteso. Siamo giocoforza sconfinati nel campo del deficit intellettivo.

In conclusione, credo che il nostro compito di fronte allinedito disagio della civiltà che oggi possiamo osservare, anche a scuola, così come ho qui cercato di mostrarlo, sia quello di ritrovare la particolarità della persona. Lo specifico tratto dei suoi comportamenti bizzarri o anche drammatici. Le sue ragioni. Nei nostri ambiti di lavoro, dobbiamo ricostruirci i mezzi per raggiungere comunque la soggettività, per mantenerla effettiva, dando in tal modo un limite alla cattura, direi anche alla seduzione,      che, nella scuola di oggi, la logica    del disturbo dellapprendimento inevitabilmente provoca.

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