Dopo aver letto l’ultimo scritto di Micaela Bartolucci “Il concetto di Patria tra snobismo e populismo”, le sue riflessioni germinali me ne stimolano di ulteriori.
L’immaginario valoriale del concetto di Italia è sminuito con assiduità. Resta indelebile la famigerata frase del Metternich per cui l’Italia fosse solo un’espressione geografica. Nel 1847, quando la scrisse in una nota al Conte Dietrichstein, era una constatazione realistica priva di connotazioni denigratorie. La penisola era effettivamente un insieme di Regni reciprocamente indipendenti, e l’accezione negativa fu un’artefazione del quotidiano napoletano Il Nazionale che la riportò per primo, in pieno fermento dei Moti e con l’intento di rinvigorire il sentimento anti-austriaco degli italiani. La frase così infelicemente ripetuta è diventata l’epigrafe definitiva sull’irrilevanza nazionale, citata a sproposito dai cosmopoliti di passaggio sulla storia e sul buon senso. Per puntigliosa pedanteria, va specificato che il Dietrichstein, nel contempo, dirigeva il Teatro Imperiale di Vienna, non nutriva simpatie per Metternich e avrebbe presto abbandonato ogni incarico pubblico.
Il sentimento di unificazione espresso col Risorgimento, subiva due interferenze importanti. Il laicismo razionalista dell’Illuminismo che non favoriva sentimentalismi tanto sacrali quanto tradizionali e l’interesse straniero sui nostri fattori strategici, che suggeriva di instillare uno scetticismo denigratorio infondo a un patriottismo orientato più a contrastare circostanze e gruppi, che celebrare un territorio, la sua storia e i suoi pregi. In questo, le congreghe latomistiche continentali e d’oltremanica sono state davvero abili. Il processo di unificazione nazionale ha visto concorrere istanze e propulsioni contrastanti, strategie e presupposti disgiunti. La palestra e il laboratorio di questo coacervo di fattori costitutivi furono gli Stati Uniti, le cui dinamiche precedettero il riassetto politico e geografico europeo. L’Italia unitaria doveva rispettare le urgenze internazionalistiche, laiche e positiviste di chi stava ridisegnando i continenti e il controllo su di essi, e non era contemplato l’orgoglio identitario di un popolo riunito per circostanze esogene, sotto il controllo del Regno meno aderente all’immaginario di italianità, i cui sovrani e dignitari neanche ne parlavano la lingua. La vocazione ineluttabile della penisola è imposta dall’essere tale nel centro del Mediterraneo, che unisce e dirime tre continenti. La potenza consolidata di chi il mare lo solcava da padrone e predone, aveva spostato il baricentro logistico sull’Atlantico e il Mare del Nord, quando le famiglie di commercianti e banchieri lasciarono Genova e Trieste per l’Olanda e, infine, l’Inghilterra. E proprio gli inglesi volevano la Sicilia per controllare il Mediterraneo e il Canale di Suez, per cui dovettero gradire le ambizioni mitteleuropee derivate dal modello sabaudo e il suo disprezzo per il meridione e il mare.
Era difficile che una comunità posta sotto il controllo della componente (i Savoia) meno conforme al gruppo, su princìpi distanti dalla storia mediterranea territoriale, in contrasto con la sua vocazione marinara e di piattaforma strategica “Inter marium” come puro presupposto geopolitico, aggravata da un sistema amministrativo disfunzionale e parziale, potesse esprimere un compiuto orgoglio di appartenenza e la forza di affermazione e proiezione nazionale.
L’appannamento della percezione di noi stessi è proseguito con le stilettate di giornalisti influenti che hanno metodicamente raccontato le debolezze italiane, il malcostume, la disistima straniera. Giovanni Fasanella ha documentato e raccontato come gli inglesi abbiano sostenuto la disinformazione istituendo la Psychological Warfare Branch, ovvero la Divisione per la guerra psicologica. Da alcuni rapporti desecretati si evince come la stessa sinistra nostrana sia stata agevolata ad assumere una supremazia culturale, forte dell’identificazione con il Comitato di Liberazione Nazionale e dell’abilità con cui ha saputo rivoltare la sconfitta nazionale in una propria vittoria, fondando il suo dominio intellettuale su un antifascismo spasmodico anche a fascismo finito, esecrando l’intero portato valoriale del regime, compreso il senso di patria e l’orgoglio nazionale, come se li avesse inventati e promulgati in esclusiva.
Anche al culmine del fasto non c’è stata la valorizzazione simbolica del termine “Italia”, considerando che l’Impero si è sempre rappresentato con Roma, in una metonimia longeva con cui si è compresa l’estensione di un dominio tanto vasto nel nome della città non a caso ritenuta eterna.
Si è cercato di convincere gli italiani di essere un popolo disomogeneo, senza un percorso storico condiviso e con una delimitazione geografica recente. Al contrario, la popolazione italiana è la più omogenea in Europa, insieme con quella francese, rispetto ai tedeschi, agli spagnoli, al Regno Unito. La delimitazione geografica che ne fece Ottaviano Augusto indicando le regioni imperiali è quasi del tutto sovrapponibile a quella contemporanea. Ma già nel 91 avanti Cristo, numerosi popoli del centro e del sud della penisola, militarmente soggetti a Roma ma esclusi dai privilegi della cittadinanza si ribellarono al dominio romano e diedero vita alla prima esperienza statale denominata Italia. Il conflitto degli italiani con Roma, che prende storicamente il nome di guerre sociali, durò due anni e terminò con la concessione della cittadinanza romana a tutti i popoli italici, con l’emanazione della Lex Plauta Papiria. Fu una legge di portata storica. Per la prima volta tutti i residenti in Italia che, nel termine di due mesi, avessero dichiarato ad un magistrato romano di voler diventare cittadini avrebbero ottenuto la cittadinanza romana.
Curioso notare come la prima esperienza di Italia sia stata, seppur brevemente, contro Roma.
Dall’alto Medio Evo si conferma e consolida la visione nazionale, fino a culminare nelle composizioni dantesche in cui si conferma l’identità tra il popolo e il territorio, dove si condivide una storia, un destino, una lingua.
Di Italia si continua a parlare nel Rinascimento, quando matura l’idea che lo Stato nazionale possa essere la mediazione tra i localismi divisivi e l’universalismo imperiale. Machiavelli e i Medici espressero la consapevolezza di un’Italia già unica per cultura e necessità, che doveva protendere alla unità politica come compimento storico della sua esistenza moderna.
Il Risorgimento innescò le urgenze necessarie a completare questo corso, chiudendo il processo burocratico che prescindeva da quello culturale e identitario.
Gli squilibri e la debolezza dei secoli successivi alla fine dell’Impero, la presenza straniera costante, il continuo conflitto tra Guelfi e Ghibellini, la Chiesa con le sue interferenze secolari, l’Unità disfunzionale e paradossalmente divisiva, il dominio di quegli alleati che ci hanno liberato per occuparci e limitare la nostra sovranità hanno influito sulla debolezza del legame tra gli italiani e la loro terra.
L’Italia è un’espressione geografica, sì, ma anche storica e culturale rilevante. Se non lo è stata politicamente, troppi fattori hanno concorso a impedirlo e non sono tutti imputabili agli italiani.
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