Abbiamo già affrontato, almeno in parte, il fenomeno della criminalizzazione e della medicalizzazione del dissenso, misure adottate dai regimi totalitari nei confronti di tutti coloro che non si adeguavano al “senso comune”, stabilito “ex ante”, sia per via normativa, che per via consuetudinaria.
I meccanismi che sottendono a questi due tipi diversi di repressione mutano a secondo dei tempi: più polizieschi nel passato, più psico-polizieschi nel presente, con la tendenza, negli ultimi mesi, con l’irrompere dell’emergenza sanitaria, a un ossessivo recupero di quello poliziesco. Prova ne sia la raccomandazione del governo Conte circa lo svolgimento di feste nelle abitazioni private, l’esternazione del ministro Speranza, la disinvolta diffusione del concetto di coprifuoco e l’autorevole Time che, senza troppe remore, ci dice cosa sta accadendo. Nuove finestre di Overton si stanno aprendo.
Lo sviluppo di tecniche non coercitive, legate a una graduale, lenta, ma ossessiva propaganda, non sono affatto meno invasive delle tecniche violentemente autoritarie. Anzi, il risultato è quello di un lavaggio del cervello che opera gradatamente, ma costantemente, tendendo a stabilizzare convinzioni che si riconoscono come proprie e non come artificialmente indotte.
Così il ricorso al lockdown più o meno generalizzato, che confonde e condiziona altamente le coscienze, ottenendo altresì come risultato solo una rassegnata sottomissione, si rivela essere un efficace strumento di sterilizzazione.
Sterilizzazione dei rapporti sociali, con meccanismi di puro e vuoto isolamento; sterilizzazione delle menti; controllo e contenimento del dissenso; e, in senso più esteso, di controllo e tracciamento medico-poliziesco.
Una sterilizzazione dell’ambiente e del contesto sociale, che opera più in senso fideistico-tecnocratico, che non in quello fattuale preventivo, proprio della dimensione della cura come concezione più ampia che ponga al centro l’umano, e non la malattia, concepita come un alienante e soffocante vincolo esterno, che infonde terrore, che tutto domina, e che ha il potere di predisporre al cambio di paradigma universale.
Chi si accorge dell’inganno è spesso portato a essere terrorizzato da questo mix di imposizione e di finta libertà e preferisce restare in silenzio per non essere additato come criminale o pazzo. Ma non solo, come nelle più famose distopie, perde contatto con buona parte dei suoi simili, si sente in colpa e non osa varcare il limite della libera espressione.
Sostanzialmente, si subisce la pressione dell’opinione pubblica e ci si autocensura preventivamente, prima che altri lo facciano, con conseguenze anche più nefaste.
Ciò produce come effetto non secondario anche un senso di estraneità verso i gruppi di appartenenza.
Tutto questo avviene a scapito dell’integrità sociale e “mentale” del singolo all’interno della comunità, al quale è di fatto negata una sana, libera e conflittuale interazione con la comunità stessa e, di conseguenza, il percorso di un riconoscimento in un’identità collettiva, senza alienarsi dalla propria coscienza per timore di essere escluso.
Sembrerebbe una vecchia storia, aggravata però dal nuovo progressismo moralista neoliberale che promuove le libertà formali, e ha in odio quelle sostanziali e sociali, che favoriscono, al contrario delle prime, l’integrazione dell’individuo nel tessuto collettivo e rivalutano la concezione di “confine” (non solo fisico) come essenziale forma di rispetto e protezione, uno dei doveri principali di una comunità.
Libertà formali, che vengono oggi invece negate, con l’imposizione della dittatura sanitaria. Una contraddizione che però passa inosservata, ma che, a ben vedere, è conseguenza dell’egoismo esasperato che è proprio di una società basata sul darwinismo sociale.
Non solo gruppi o ex gruppi di appartenenza e comunità sono coinvolti nel problema, ma in maniera non secondaria, lo sono social network, discussioni in rete e, con minore intensità, di riflesso, anche la vita reale. Nella vita reale si riescono comunque a trovare, almeno potenzialmente, delle modalità meno alienanti, in cui la via della comprensione (in senso letterale) è più facilmente percorribile. Resta tutto però gravemente inquinato.
Soprattutto nello scontro virtuale, si tende sempre più a polarizzare il ragionamento logico, riconoscendosi e rinchiudendosi in rigidi frame tra loro opposti e questo avviene riducendo anche temi di fondamentale importanza alla stregua di conflitti sezionali e secondari. Di esempi ce ne sono a iosa.
Per carità, la generalizzazione va anche bene ma, se diventa norma, chi vorrebbe applicarsi in un ragionamento più complesso non trova spazio, a meno che non abbia grande visibilità, o la pazienza e il tempo da spendere in un’attività snervante e logorante, con risultati assai discutibili; con la consapevolezza che questa attività potrebbe essere comunque lo stesso banale, rischiando di creare ulteriori frame: quello del “né – né”, o dell’ “in medio stat virtus”.
Quindi, si sceglie di tacere.
C’è chi dirà che è un vecchio problema, ma il fenomeno assume gradatamente sempre più l’aspetto di una gabbia mentale, di quella che stanno cercando di rendere appunto una patologia, favorita dal feroce modello economico, scientifico, politico e culturale dominante, che conduce all’esasperazione di due comportamenti: uno dettato dal più sfrenato individualismo e narcisismo e l’altro quello di gregge, che sono ruoli tra loro interconnessi e necessari l’uno all’altro.
Un buon esempio di questo meccanismo è, infatti, la spirale del silenzio, teorizzata da Elisabeth Noelle-Neumann nel 1984 (un anno che è solo una coincidenza?), e come evidenzia anche una ricerca effettuata negli USA dal PEW Research Internet Project:
“….l’impiego dei principali social network (Facebook e Twitter) riduce l’espressione delle reali opinioni degli utenti. Infatti, se un utente percepisce di avere un’opinione minoritaria, rispetto alla rete dei propri contatti/amici, decide di non esprimerla in percentuali maggiori che nella vita reale. Ciò accade sia perché gli utenti non vogliono deludere i loro contatti/amici, ma anche perché gli utenti non vogliono lasciare tracce digitali delle loro opinioni minoritarie, dato che temono che esse possano danneggiarli in futuro (socialmente, professionalmente, ecc.).
Per questo motivo molti utenti scoprono, con sorpresa, che i loro amici esprimono sui social network opinioni diverse da quelle espresse verbalmente nella vita reale.”
La soluzione a tutto questo dovrebbe venire dall’insorgenza di piccoli e grandi gruppi informali e orizzontali, che abbiano come obiettivo: l’inclusione dei singoli, la ricostruzione di una coscienza collettiva, che non passi attraverso codici o dogmi alternativi, ma che sia di tutela, sviluppo e stimolo nei confronti del libero pensiero e della libera espressione.