Illusioni, disincanti e miserie di fine stagione

La guerra sorprende chi non ha consapevolezza storica. I principi che strutturano la modernità dimostrano la loro debolezza. Nazione, Stato, Democrazia, Progresso e Occidente mancano di fondamento assoluto e perdono consistenza rispetto agli eventi. Giunti alla fine evidente di un’epoca, se non si ricostituisce una profondità strategica e dialettica, non resta che affidarsi alla ciclicità dei corsi ecumenici.

Che ci sia la Guerra non può sorprendere. Lo sgomento tocca le ireniche anime che ignorano la Storia. Invocare la Guerra o ritenerla solo l’abietto e mero ritorno della malvagità umana, quand’anche necessaria, è la deriva analitica in assenza di concetti e fattuali, l’inganno poco nascosto sotto la polvere di polverose presunzioni di giuridificazioni universali, di democrazie acclamate e acclarate, della pretesa ineluttabilità del diritto internazionale.

La rappresentazione degli scenari che ci viene somministrata, prescinde da qualsiasi fondamento epistemico, ermeneutico, tassonomico ed assiologico. Non c’è un criterio, non c’è un’indagine nelle più elementari dinamiche di causa-effetto, non c’è prospettiva passata né futura, rinnegando qualsiasi principio di realtà per perdere, quindi, ogni senso della misura. Si affrontano gli eventi secondo semplificazioni politologiche manichee, riducendo dialettiche complesse a uno scontro tra democrazie e autarchie, alla miseria della dicotomia tra aggressori e aggrediti, pronti a compilare la lista dei buoni e dei cattivi, come accadeva sulle lavagne della scuola. Se questo è già troppo, si aggiunge una ulteriore aberrazione, quella di diagnosticare patologie psichiatriche o degenerative nei leader nemici che, da soli o con un manipolo di degenerati come loro, costringono interi popoli alla loro tirannica follia. Ebbene sì, se la visione leaderistica è di per sé ingenua, la pretesa patologizzazione ne è il grado infimo.

Che ci sia la Guerra non sorprende se si è consapevoli che non siamo mai stati dentro un universalismo giuridico, ma in un sistema strutturato dagli anglosassoni secondo la logica del Rimland, ovvero nel contenere ogni spostamento verso gli oceani delle forze politiche continentalmente interne,  ovvero verso lo spazio di dominio indiscusso della supremazia non a caso talassocratica. Il contenimento di Europa e Asia sarà l’ossessione imperiale finché non si esauriranno esse stesse o l’Impero. Nel frattempo, l’impegno a controllarle e dividerle può essere alternato ma, al dunque, incessante.

Lo stato di salute dell’Impero è cagionevole. La supremazia dell’impianto strutturale resta, l’egemonia sbiadisce. Il mondo da globalizzare soli e a loro immagine e misura è risultato troppo grande. Le colonie europee sono state svuotate statualmente e politicamente per facilità di controllo, quelle asiatiche come Giappone e Australia sono microbi che galleggiano in un oceano  su cui si affacciano realtà imprevedibili, confinanti con quella grande massa di potenzialità e ambizioni che è la Cina, al momento risolta a proiettarsi nel mondo via terra, non potendo mettere liberamente piede nel suo stesso mare. Al momento.

Lo stato di salute dell’Impero è cagionevole anche all’interno della nazione guida, gli Stati Uniti, dove dilagano depressioni clinicamente diagnosticate, dove si contendono la presidenza due ottantenni entrambi inadeguati alla complessità e alla rappresentanza del ruolo, dove l’eccesso woke sta suscitando rigetti, dove il clima sociale è sempre più teso e la dinamica economica sussulta.

L’Occidente sconta i peccati delle sue stesse illusioni. A cominciare dal definirsi tale, senza alcun senso geografico e spaziale, considerando che in esso si comprendono Giappone, Australia, Nuova Zelanda, magari anche la Corea del Sud, Taiwan, il Sudafrica, Israele? Che Occidente sia una costruzione arbitraria e ideologica priva di una matrice culturale comune, che non propone un combinato identitario riconosciuto e il cui unico vettore condiviso è la diffusione di un modello economico liberista, non servono Chomsky, de Tejada e de Benoist a dircelo, perché è sperimentato da decenni. L’Occidente resta una relatività cardinale, esiste rispetto a un oriente come il Polo Nord rispetto al Polo Sud e non ha altra valenza che quella geografica.

La spudoratezza ulteriore è vaneggiare di valori occidentali. Da uno spazio relativo, indefinibile, privo di un contenuto storico e sociale che trovi riscontri reali effettivi, è velleità in purezza pretendere che un concetto filosofico tardo moderno come quello dei valori assurga a insieme complesso con pretese eticheggianti. Ai valori occidentali residua una mera funzione propellente per la nostra prassi e per la nostra conflittualità.

Ecco, la prassi può essere un altro fattore che connota il tempo di questo Occidente senza luogo e consistenza. Il sogno infranto in cui si è preteso che l’azione potesse afferrare l’essere, che il fare determinasse l’esistere, ha una spiegazione possibile. In più ambiti le sottofunzioni hanno assunto un ruolo principale e a volte addirittura esclusivo.

La finanza, infrastruttura dell’economia, ne è diventata protagonista sostituendo la gestione del bene comune con il denaro e la programmazione della spesa con la speculazione fine a sè stessa. Anche il progresso, che consegue lo sviluppo e l’evoluzione della consapevolezza e della coscienza, isolato a paradigma del benessere, presume di trovare il suo compimento nell’innovazione tecnologica, nella diffusione di beni di consumo e in questa trappola del fare che precede l’essere, nell’azione spasmodica che produce solo l’effetto di dover agire sempre di più, quindi di dover correre sempre più forte, ritrovandosi nell’accelerazione come la descrive Hartmut Rosa, dove il tempo è una risorsa che si riduce continuamente per quanto si aumenti la velocità e l’intensità delle azioni. Con il fare senza essere, per di più con l’unico scopo di fare sempre di più e più velocemente, potrà esserci un “ben fare”, un “tanto fare” ma, tralasciando il divario tra efficienza ed efficacia, più di tutto, senza l’essere non potrà esserci benessere.

Anche l’amministrazione e la guerra sono sottofunzioni di una categoria principale, ovvero la politica. La visione strategica che indica il percorso di un sistema sociale, la gestione delle sue complessità e la risoluzione delle tensioni che ne derivano, ne sono precisi crismi. Alla politica attengono la visione, l’alternativa, gli equilibri tra interessi plurali. Ed è nelle aggregazioni organizzate che si compie la rappresentanza dei singoli nell’esercizio politico.

Finché il liberismo ha dovuto mostrarsi democratico hanno retto le impalcature di rappresentanza. Quando è caduto l’antagonista sovietico, non ha vinto la democrazia ma il capitalismo privato che fino a quel momento si era contrapposto al capitalismo statale centralizzato. Così ha prevalso lo Stato minimo, inteso come agenzia di gestione tecnica degli ambiti sempre più ridotti non sottratti alla amministrazione pubblica.

L’impianto democratico è stato smantellato da dentro, spegnendone progressivamente le funzioni sensibili. Minando la fiducia nelle rappresentanze, limitando il potere effettivo del comparto politico, facendo credere al singolo di poter contare e decidere in quando tale, laddove nelle Costituzioni il singolo non è affatto riconosciuto come attore reale, si è ripristinato il classicismo oligarchico pre-bellico che ha liberato la finanza e l’amministrazione da vincoli e responsabilità, senza nascondere più i veri fattori decisionali, che sono i rapporti di forza e il valore di scambio.

Così la guerra, senza visione politica, quindi senza mediazione diplomatica, diventa un mero esercizio di forza, una coazione tecnicistica autopoietica, ridotta a rappresaglia punitiva senza obiettivi e senza quartiere. Per misurare la sconfitta e la vittoria servono un criterio e un fine. Dopo le guerre sante e giuste, dopo quelle che pretendevano di imporre pace e libertà a suon di bombe, è toccato vedere anche la guerra al terrorismo, intestata a quell’Obama abusivo Nobel per la Pace. Se l’Impero non ha vinto nessuna guerra dopo quella mondiale, lo si deve all’assenza di visione e di strategia. Del resto, un Segretario di Stato dall’improbabile nome di Condoleezza (davvero…), laureata in Scienze Politiche a Denver (perbacco…), arrivò a dire che gli Stati Uniti, come hanno portato la democrazia in Germania (senza alcuna esitazione…), così avrebbero fatto in Iraq (e infatti…). Si conferma ancora l’abusato Chesterton, per cui finito di credere in Dio si può credere a tutto (tranne che a certe università e loro studenti).

Sul muro della Storia e della realtà si disintegrano i vessilli delle ochette giulive dell’emancipazione e del suprematismo morale. Via la giuridificazione universale, via la democrazia, via lo Stato, che senza politica e rappresentanze organizzate non è l’arbitro e il gestore super partes del bene comune ma un esattore, uno sceriffo, un grand commis senza commissario, un diacono con ambizioni episcopali. Via il progresso come fattore di benessere. Chissà quanto resisterà la circostanza di Nazione in quanto comunità di individui in un territorio geograficamente definito sotto un governo unico e sovrano.

Questi schianti riaprono una voragine, quella del fondamento dell’autorità. Il presupposto legittimante che non deve auto giustificarsi era Dio, e lo era nel suo trascendere e precedere l’immanenza. Quando l’onnipotenza e la bontà divina si sono compromesse in un eccesso di conflitti e danni, si è legittimato il contro-potere immanente attraverso il Contratto, fondato di volta in volta sulla ragione, sul principio nazionale, sul lavoro che costruisce il mondo stesso in cui si abita. Tutta la modernità ha vissuto su un abisso possibile solo sulla negazione della trascendenza originale, e nel tentativo di contrapporsi a Dio si è  generata una immanenza bisognosa di continui adeguamenti e riformulazioni. Ma quella voragine non è stata mai riempita e ogni espediente per ignorarla e proseguire l’esercizio di governo è fallito per scadenza implicita.

Svuotando la politica del potere, si è infranta l’illusione democratica che aveva restituito un senso sociale alle comunità devastate da due guerre mondiali, che in quell’illusione avevano ritrovato un motivo per rinnovare il mandato che legittimasse ancora l’autorità. E la voragine è riapparsa.

Non sorprende che ci sia la guerra e che conflitti paradossali e incontrollati volgano al peggio. Mancando l’indirizzo politico, non c’è profondità strategica. Le spedizioni punitive affidate al tatticismo militare, sono regolate dalla tecnica meccanica e dalla tecnologia digitale, dove scenari e decisioni potrebbero dipendere da algoritmi -ipotesi da scongiurare- degenerando nella guerra per la guerra. A cui ci si arriverebbe con questo Impero malato e l’Europa impotente, impoverita, con pochi abitanti e per di più vecchi, disarmata negli animi più che negli arsenali, disincantata nella sua condizione coloniale e quasi ripudiata dal suo colonizzatore.

Ci si domanda come sarà il mondo dopo, essendosi consumati i modelli e i costrutti conosciuti, se è ancora pensabile un sistema di governo a responsabilità diffusa, il più orizzontale e coinvolgente possibile, o se l’irrisolto nodo del controllo dell’uomo sull’uomo restituirà signorie frammentate o nuove formule totalitarie. Se e come si possa riempire o ignorare di nuovo la voragine.

Sappiamo, però, che l’Uomo resiste ai cataclismi naturali e alle tragedie artificiali, alle devastazioni, agli stermini. Il tempo circolare alterna continuamente cicli espansivi con cicli oppressivi e in ogni condizione troviamo testimonianza del genio, dell’artista, del pensatore. Spariranno gli influencer, gli youtuber, i trapper, la spettacolarizzazione dell’osceno, gli esperti senza altra esperienza che l’ammirarsi, gli opinionisti, i propagandatori, i personaggi senza persona, l’ossessione degli chef stellati , l’imprenditore la cui unica impresa è un Suv a rate, l’uso farlocco e provinciale dell’inglese, le infradito oltre la spiaggia, l’ecologismo e ogni male imposto oggi per vivere meglio domani. Torneranno arte, mestieri e coscienza.  Una nuova intuizione, un altro capolavoro, una ulteriore espressione sublime dell’intelletto e dell’animo ridaranno respiro al senso eterno e universale della Storia, rinnovando la memoria e la prospettiva del nostro ineffabile e illusorio passaggio in questa indeterminata dimensione.

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