Ogni essere umano vive nel mondo nel quale gli è dato nascere e, per la più parte dei casi, non può far altro che adeguarvisi in maniera più o meno consona alle aspettative del sistema nel quale si trova ad esistere. Come scrisse Max Weber:
L’odierno ordinamento capitalistico è un enorme cosmo in cui il singolo viene immesso nascendo, che a lui è dato, come un ambiente praticamente non mutabile, nel quale è costretto a vivere. Esso impone a ciascuno, in quanto costretto dalla connessione del mercato, le norme della sua azione economica¹
I requisiti per adeguarsi a questa condizione vengono conculcati, ovviamente, fin dall’infanzia e sono informati da un complesso schema di pensieri ed azioni che vengono imposti affinché possa verificarsi un’adequatio più aderente possibile alla Weltanschauung vigente.
Pertanto, i fanciulli di questo mondo o, per meglio dire, gli esseri umani “in formazione” vengono plasmati con grande cura in modo da assumere pensieri, comportamenti e attitudini che siano conformi al “tipo umano” confacente alle modalità e agli scopi del sistema.
L’attività di “produzione di esseri umani” è una delle più importanti ed efficienti che si manifestano nella nostra società. Lo scopo è quello di far sì che vi siano solo poche eccezioni che riescano a sfuggire alla “gabbia d’acciaio” di prevedibile “normalità” alla quale sono destinati. Queste ultime, in genere, sono considerate alla stregua di prodotti difettosi. Quelli coi difetti più gravi verranno “scartati” dall’Apparato, siccome organismi con gravi malformazioni genetiche, che sono inadatti alla sopravvivenza: saranno gli eterni “disadattati”, coloro che vivranno “ai margini della società”. Altri, con imperfezioni meno gravi, verranno inseriti, in un modo o nell’altro, all’interno dell’Apparato, pur necessitando di vari interventi di riparazione e di una manutenzione continua, interventi che sono comunque utili al metabolismo del sistema, in quanto danno vita alla fiorente industria degli ansiolitici e degli antidepressivi, e all’altrettanto fiorente commercio delle varie tecniche psicoterapeutiche (per non parlare della fiorentissima categoria merceologica delle droghe illegali).
Gli individui sono ormai tanti prodotti fabbricati in serie, intercambiabili, molto spesso pleonastici, vittime predestinate dell’appetito inesauribile dell’Apparato, che come una divinità calvinista, li condanna, con sovrano arbitrio, alla dannazione terrena.
Ma la propaganda, incessante ed onnipresente, è assai pronta a gabellare questa triste predestinazione sotto le vesti di privilegio: “non fate forse parte del migliore dei mondi possibili”? Una cornucopia di opportunità, distrazioni e desideri?
Così tutti vengono allevati alla stregua di animali da utilità: alcuni da produzione, altri da macello, e tutti sono indotti a credere che questo sia un favore, perché il Sistema è come un “buon pastore” che, con grande cura e affetto bada il proprio gregge in modo che possa pensare che la strada verso il macello sia quella che conduce al paradiso.
La biopolitica, della quale discettava Foucault, si è mutata definitivamente in zootecnia, la politica in statistica, la statistica in una rappresentazione di fisica newtoniana, che ha la pretesa di calcolare e prevede i moti delle particelle elementari che compongono quel grande assieme che viene chiamato “umanità”.
Fin da fanciulli, tutti sono accuratamente ammaestrati per apprezzare l’insensata routine che caratterizza l’organizzatissima esistenza degli esseri umani nel mondo moderno. Si impara presto a scandire il tempo con le lancette dell’orologio, perché occorre impegnarsi a saturarlo con ogni genere di «impegni»: le regole del mondo moderno vogliono che il tempo debba essere sempre affollato di attività “comandate”, affinché non ne rimanga un briciolo a disposizione, magari per sognare o immaginare o esplorare regioni del pensiero che non sono utili e funzionali al meccanismo insulso ma efficientissimo della nostra civiltà.
Ogni mattina la sveglia suona per tutti, adulti e piccini, e da quel momento si è schiavi della fretta dettata dagli obblighi della giornata. Si esce di casa, sempre frettolosamente, sempre con l’ansia di arrivare in ritardo, ovunque si vada. Poi ci si immette tutti, adulti e piccini, per vagare sulle stesse strade rigurgitanti di veicoli che rombano all’unisono. Non importa se splenda il sole o se l’atmosfera sia avvolta dal melanconico grigiore autunnale: non v’è il tempo né lo spazio per osservare il cielo, confinati come si è nei mezzi di trasporto che percorrono le anguste valli di asfalto e di cemento. Non si può percepire il profumo della primavera, nell’aria cittadina; non si odono cinguettii di uccelli, frinire di cicale, stormir di fronde, quando si è immersi in quell’indistinto frastuono meccanico. I volti chiusi nelle semoventi carcasse metalliche sono cupi o rassegnati, qualcuno scruta ansiosamente le lancette dell’orologio credendo forse, con questo gesto apotropaico, di poter fermare lo scorrere irrevocabile del tempo.
All’ora stabilita, quella parte di esseri umani che è in fase di fabbricazione, entra in massa negli opifici scolastici, come un coacervo di disordinati plotoni di soldatini meccanici, destinati a trascorrere diverse ore in uno stato di forzata immobilità e di silenzio coatto, in modo da poter essere riempiti come otri di tutto ciò che serve per trasformarli, con tempo e pazienza, in esseri adulti, proni a tutto ciò che l’Apparato esige da loro. Alcuni saranno destinati ad essere ai vertici della piramide (quelli che frequentano le scuole “alte”), ovvero saranno le pietanze più elaborate all’interno del menu, altri saranno semplice impasto da ripieno, da inserire, indifferentemente, in uno dei vari strati del sistema: nella produzione, nel commercio, nei vari ingranaggi burocratici.
Siccome, nelle fasi iniziali della vita, la propaganda è molto più feconda, non va lasciato nulla di intentato per plasmare i fanciulli per renderli piccoli automi proni alle istanze, visibili o invisibili, del sistema; per informarli con una visione del mondo uniforme, affinché diventino prodotti standardizzati.
Alla fine della quotidiana immobilità coatta, ci si aspetterebbe che fosse concessa loro un po’ di libertà, come ogni bravo carcerato ha diritto alla propria «ora d’aria». Invece no, non è più permesso, a questi pietosi esserini, di poter giocare liberamente, di esplorare il mondo con i propri occhi. Il loro tempo (come quello degli adulti), deve essere accuratamente ripartito in innumerevoli incombenze, con la pietosa scusa che questi sono utili per la loro formazione (ma quand’è che si può vivere senza l’assillo di dover far qualcosa che serva a qualcosa d’altro?). Pertanto vengono sottoposti ad una cornucopia di attività sportive, di corsi di qualsivoglia disciplina(dal cinese all’ottavino, dalla pittura alla danza).
Poi, al termine di questa spossante routine, rimangono i compiti a casa. Un’alacre frenesia che li fa giungere stremati alla fine della giornata, quando, finalmente, possono trovare un po’ di quiete per dedicarsi a vacui svaghi come gli autistici passatempi elettronici o televisivi, che sono preparati appositamente per loro dall’industria del tempo libero, affinché non ne rimanga un briciolo a disposizione dell’arbitrio del singolo. Non sia mai che possano avventurarsi in regioni del pensiero e dell’immaginazione avulse dagli scopi, insulsi ma perseguiti con grande efficacia, del sistema.
D’altronde, quest’ultimo, non ha certo l’interesse di sviluppare le qualità umane, le doti personali, le vocazioni individuali, bensì quello di fabbricare tipi umani che siano conformi ai propri desiderata, ossia personcine passive e acquiescenti, pronte a recepire il continuo flusso di parole d’ordine con reazioni stereotipate, con obbedienza, come tanti esserini pavidi e suggestionabili, pronti ad eseguire tutto ciò che si richiede loro.
È necessario avvezzare i giovani esseri umani alla passività, renderli incapaci di attività spontanea, in modo che siano facili vittime del tedio, prede dell’horror vacui, se i loro sensi e la loro mente non sono continuamente stimolati, se la loro attenzione non è continuamente distratta, se non vi sono continui impegni ad occupare la loro vita. Non sono ammesse pause, i tempi morti sono riempiti dall’industria dello svago. Non deve esservi un attimo di tregua per poter pensare: deve scomparire il soggetto, solo l’oggetto, il passivo recettore è utile alla nostra società. Un tempo i fanciulli davano un nome ai propri balocchi, oggi ci pensano le multinazionali del giocattolo.
Alla fine degli anni della formazione il giovane adulto è pronto per essere un perfetto ingranaggio della macina satanica dell’Apparato: i suoi pensieri e i suoi desideri non sono altro che una copia conforme di pensieri e desideri formulati da altri, miscelati ed assemblati come una melassa che a tutto si adatta affinché tutto si adatti a lei.
L’essere umano in fase di fabbricazione è materia plasmabile nelle mani dell’Apparato, una matrice sulla quale imprimere una forma. Fino a qualche tempo fa, veniva modellata una forma umana adatta ad una società di produttori e consumatori, perché la struttura del cosiddetto “mondo occidentale” era ancora informata da una configurazione economica che ancora aveva bisogno di produrre e di consumare ciò che era prodotto, Quindi occorreva il “saper fare” (tecnici, periti e operai specializzati), il ricercare e, quindi, l’inventare e il mettere a punto quelle innovazioni che avrebbero permesso di competere sul “mercato internazionale”. Assieme a questo, era necessario far funzionare le “strutture intermedie”, pubbliche e private, che richiedevano un certo numero di addetti. Tanti venivano ad essere parte di queste strutture, di questa cinghia di trasmissione situata tra l’empireo dei privilegiati ed i bassifondi dei dannati. Per accedervi erano necessari formazione e titoli di studio che, per questo, un tempo, avevano una funzione di “promozione” sociale ed economica.
Nell’odierno regime di “accumulazione flessibile” (per usare una delle innumerevoli definizioni che sono state date al mondo presente)² che si è instaurato, negli ultimi decenni, nel “mondo occidentale”, tutto questo pare essere diventato pleonastico. Formazione e istruzione non sono più, se non per quella piccola parte di umanità che dovrà fornire il ricambio a quella sempre più sparuta sub-élite che, deve ancora fungere da cinghia di trasmissione per i desiderata dell’élite: i sempre più esigui corpi intermedi che possano assicurare quella parvenza di ordine sociale, ancora necessario, pur nel cammino verso il caos sistemico di una sognata tecno distopia totalitaria.
Quanto alla cultura, ovvero, etimologicamente, “ciò che è coltivato”, la tradizione³ di una civiltà incarnata nelle menti e nelle opere, questa, davvero, non è più di alcuna importanza. Non serve più tramandare alcunché, se la strada intrapresa è quella che procede verso l’“ordine spontaneo” di un eterno presente, nel quale il capitale, unico ordine rimasto, sarà perpetuamente nomade in uno spazio privo di confini, ed in un tempo privo di passato e di futuro.
Se già ai tempi di Günter Anders, l’uomo cominciava ad essere antiquato, ora lo è anche il bambino. Il delirio post-moderno sogna una diversa umanità, costituita da un amorfo coacervo di esseri semi-umani dai quali possa essere eradicata le caratteristiche umane per lasciare solo una passività indifferenziata. Masse di carne semoventi che si possano governare secondo schemi zootecnici e tecniche pavloviane.
A che serve il futuro essere umano nel sogno distopico che vede una post-umanità aspaziale e atemporale, priva di futuro e privata del passato? A che serve la cultura, la memoria, il ricordo, ma anche il semplice “sapere”, in un mondo privo di direzioni nello spazio e nel tempo?
Infatti, di questi tempi, si sta verificando un salto di qualità: stiamo assistendo all’annichilimento dell’ultima funzione rimasta alle strutture preposte all’istruzione, ossia quella di mero recinto, nel quale confinare fanciulli e adolescenti affinché i genitori possano svolgere le proprie occupazioni quotidiane. Perché non è certo possibile –chiunque è in grado di comprenderlo- lasciar scorazzare eserciti incontrollati di minori per le strade delle città e dei borghi.
Col recente avvento del totalitarismo zootecnico (o epidemico) persino questa funzione residuale pare essere divenuta pleonastica. Già, perché la “formazione a distanza” è perfettamente inutile, come recinto, così come sono inutili tutte le immaginifiche proposte per la scuola che verrà, come gli “ingressi scaglionati” o l’”orario flessibile”: come si farebbe a conciliare cotanta flessibilità con gli orari inflessibili di quei genitori che, ancora, nonostante tutto, svolgono un lavoro?
Le motivazione “epidemiche” della circostanza, con ogni evidenza, sono state assai utili per accelerare l’attuazione di un processo già in atto, la cui “agenda” era scritta da tempo (never let a serious crisis go to waste), Ciò che si sta verificando nella scuola, è comune a quanto accade in tutte le strutture nelle quali esiste ancora una parvenza di vita comunitaria (luoghi di lavoro, di riunione, di svago) anche se, nella più parte dei casi, di questa rimane solo la rappresentazione.
La “formazione a distanza” dei giovani si rispecchia nel “tele-lavoro” degli adulti nel quale la funzione sostituisce non più soltanto l’individuo ma finanche la realtà fisica. L’ideale postmoderno della vita umana risiede nel sintagmetto velenoso “distanziamento sociale” (se lo scopo fosse la mera profilassi si dovrebbe parlare solo di “distanziamento fisico”).
Il distanziamento sociale, la formazione a distanza, il tele-lavoro denegano tutto ciò che mette gli uomini in diretto rapporto tra loro consentendo la vita collettiva, ovvero quella di una comunità che non sia la semplice somma di singoli individui, di ciò che fa sì che l’uomo possa essere definito come «animale politico» e rende possibili non solo le condizioni per l’esistenza della comunità, ma anche quelle per la memoria collettiva, ovvero per la storia.
Il distanziamento sociale è l’eterno presente di un’assieme di monadi, accomunate solo dalle caratteristiche biologiche comuni: non una comunità che si manifesta secondo azioni politiche, ma un gregge o una mandria che, come tali, vanno governati con strumenti zootecnici.
La jatrocrazia che si è affermata in questi ultimi tempi, ne è l’esempio lampante.
[2] Nella fattispecie: HARVEY D., The Condition of Postmodernity: An Enquiry into the Origins of Cultural Change, Basil Blackwell, Oxford 1989.
[3] “ciò che è tramandato”
[…] Di Pier Paolo Dal Monte, frontiere.me […]
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