BRUTTI, SPORCHI E CATTIVI

Siamo nell’epoca ignobile della bruttezza che pervade ogni singolo istante della vita, una bruttezza estetica a cui corrisponde, fatalmente, una bruttezza etica: la decadenza dell’occidente travalica la forma esteriore e si fa sostanza, riempiendo di sé tutti gli ambiti del vivere.

È sufficiente uscire di casa per esserne pervasi, lo squallore estetico avvolge tutto in uno spettacolo indegno, basta guardarsi intorno per accorgersi di essere circondati, per esempio, da una miriade di uomini e donne il cui aspetto, anche esteriore, sembra essere stato influenzato da uno stregone che, in preda ad uno sghiribizzo, si sia divertito a trasformare l’inconsistenza interiore, dandogli una forma estetica, in modo che questa possa essere scorta: sciatteria? Mancanza di gusto? Approssimazione cromatica? Magari! No, l’estetica del brutto va ben oltre certi parametri ancora rispondenti a canoni estetici, perché qui regna l’assenza, siamo di fronte ad una vera e propria panoplia dell’orrido: tutto ebbe inizio dai malefici anni ’60 e poi è proseguito con lo “stile casual”, che chiamarlo “stile alla cazzo di cane” sembrava brutto, fino a giungere al parossismo di oggi, un pullulare di tute informi, improbabili scarponi, osceni zatteroni, ridicole borsine da sera, abitini tanto succinti da coprire giusto le pudenda perché, essendo l’essere umano merce, tutto deve essere ben esposto, giacchette tanto striminzite e risicate da sembrare tagliate da un sarto cieco, jeans con la vita talmente alta da far emergere qualsiasi difetto fisico, costumini microscopici da cui escono cellulitiche abbondanze, capelli, slisciati e sfibrati da onnipresenti piastre, tinti in ridicoli colori pastello per assomigliare a personaggi anime, trucchi imbarazzanti, gonnelloni multicolori, vestitoni floreali, mocassini ai piedi di donne, uomini coi pantaloni alla caviglia e, magari, depilati…

Perché tutto ciò? Perché è l’epoca in cui il brutto e lo squallore devono imperare, dobbiamo esserne circondati: esserne avvolti e vivere in contesti in cui domina un’architettura brutta, ammiratori di un’”arte” brutta e standardizzata, assuefatti a programmi brutti  che mettono in luce la miseria umana, film, libri e perfino pubblicità brutti che oltrepassano squallore e cattivo gusto perché devono essere totalmente funzionali a tutte le sfaccettature della sub-ideologia mondialista e quindi anche macchine brutte, mobili brutti… nulla deve sfuggire all’anti-estetica e, sotto questa montagna di immondizia, il bello deve scomparire ed insieme a lui deve sparire ogni vestigia della cultura e della civiltà, tutto deve essere cancellato.

Questo trionfo della bruttezza ha i suoi riti, universali e globalizzati, a cui tutti i suoi accoliti, coscienti o meno, si sottopongono sforzandosi al massimo di glorificarlo, ossequiandolo quasi fosse un precetto divino. Ecco quindi i nuovi diffusori di bruttezza ridotti a fotografare e condividere ogni istante, anche il più insignificante, o il più intimo della propria esistenza: i piatti cucinati, quel che si mangia o che si è mangiato,  senza alcun limite, esibendo persino tovagliette di plastica, piatti sporchi o di carta e, ancora, angoli di casa che includono la cucina, il bagno e la camera da letto… la vita privata, condivisa su mille social e data in pasto al pubblico, non esiste più, nulla deve restare riservato, tutto deve, imperativamente essere propagato diventando collettivo, manca solo la condivisione dei momenti che si passano al cesso e poi, finalmente, non ci saranno più segreti. La bruttezza come vera divinità dell’oggi.

Se fosse vero che l’uomo è ciò che mangia, allora la maggior parte degli esseri viventi sarebbe spazzatura e gli insetti che vorrebbero propinare all’uomo occidentale, ne sarebbero solo una metafora, la ciliegina sulla torta, perché quello che, finanche nella patria della non cultura culinaria, chiamano “robaccia” è diventato, già da tempo, nutrimento giornaliero, considerato quasi prelibato dalla massa degli amorfi consumatori che accorrono a frotte in posti puzzolenti e plastificati ad abbuffarsene. Stessa considerazione per quegli altri obbrobri socio-culinari che si fregiano dell’uso dell’orrido anglicismo “All you can eat” nei quali il branco dei disadattati si reca per praticare una becera attività che consiste nel rimpinzarsi come maiali di cibo con un vago sapore orientale, di giapponese ha solo il nome, in turni da catena di montaggio che di quest’ultima hanno anche le modalità. L’aziendalizzazione del cibo.

La bruttezza ed il degrado non sono, chiaramente, solo estetici o esteriori, essi, come ripetuto, colpiscono ogni istante dell’esistenza, di conseguenza anche il pensiero, tramite il linguaggio, scritto o orale, che, conseguentemente, sta peggiorando sempre più rapidamente, diventando sgrammaticato, povero, sciatto, privo di punteggiatura, di congiuntivi e infarcito non solo di insensati neologismi ma di una marea di inutili anglicismi che testimoniano solo una profonda sudditanza terminologica come essenza di quella culturale. Siamo circondati da una massa che non è capace di scrivere neppure un messaggio di senso compiuto o senza errori d’ortografia, che non riesce a spiegare il proprio pensiero neppure quando è formato da quattro concetti; non parliamo neppure della categoria degli scribacchini che si dedicano alla stesura di articoletti o librucoli con la pretesa di voler condividere il loro puerile punto di vista precotto e predigerito o le loro storielle ininteressanti, magari tronfi per aver vinto “pregiati” premi letterari: ecco, su costoro, per il semplice fatto di non essere altro che vili servi del sistema, o analfabeti che si fingono antisistema, che è lo stesso, è solo possibile stendere un pietoso velo sperando che questo li conduca, semi invisibili, ad un rapido futuro oblio.

Che cosa si può fare? Nulla, perché manca la volontà, l’Italia vive ormai comodamente e confortevolmente in questo ovattato fatalismo, una realtà priva di quell’horror vacui che sarebbe necessario per svegliarsi, e l’avere inondato l’intera nazione di esseri umani provenienti da paesi in cui la civiltà, anche qualora sia presente, è lontanissima dalla nostra, non aiuta, anzi standardizza socialmente a parametri, estetici ed intellettuali, mondializzati non specifici, se non al ribasso.

Non ci resta che piangere su tutte le generazioni di sfortunati, presenti e future, che cercheranno di sopravvivere annaspando nell’orrido, destinati ad essere poveri di sentimenti e di cultura, quandanche ricchi di mezzi di sostentamento, miseri nel cuore e nell’animo, rammolliti e fiaccati dall’impotenza, brutti dentro e, spesso fuori, per altro tutti uguali ma solo esteticamente, ed ignoranti fino al midollo perché le quattro nozioni che possiedono  loro da una scuola sempre meno alfabetizzante, dal mondo del web e Wikipedia.

Purtroppo non si salva e non si salverà quasi nessuno dalla desertificazione del brutto che avanza, già oggi ne è immune solo qualche esemplare e, la maggior parte di questi, appartiene a quella generazione che i giovani, appiattiti al sistema, che ne siano consapevoli o meno, definiscono, dall’alto della loro tracotante inconsistenza, “boomer”: questi sono gli ultimi ad aver conosciuto la bellezza, l’hanno apprezzata in ogni sua forma, sono cresciuti vivendone circondati, non tutti, chiaramente e certamente molti se ne sono dimenticati, ma, per fortuna, esiste questa casta di privilegiati. In loro, e pochi altri, risiede la salvezza, e costoro, che della bellezza hanno ancora pieni gli occhi, riescono a narrarla e, conseguentemente, a trasmetterla: sono un manipolo di esseri fortunati, certamente superiori, uomini e donne, capaci di custodirla e, conseguentemente, tramandarla non solo ai loro figli ma anche e, soprattutto, a chiunque sarà in grado di coglierla e quindi apprezzarla, ovvero a tutti coloro che non si arrenderanno al brutto e che avranno voglia di combatterlo.

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Truman
Truman
11 mesi fa

“Dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fiori” (citazione censurata di Fabrizio De Andrè).
Molto stimolante l’articolo, ma sembra impostato su una visione lineare, una visione causa-effetto, del mondo. Ma il mondo non si muove per andamenti lineari, preferisce muoversi per contraddizioni, per paradossi. E questo De Andrè, come molti poeti, lo capiva bene. L’onda che trasporta la bruttezza prima o poi si smorza e da qui può riemergere la bellezza. Non è una speranza, è una constatazione.

Segnalo quello che mi appare un refuso: “jeans con la vita talmente alta da far emergere qualsiasi difetto fisico”; probabilmente va inteso come “jeans con la vita talmente bassa…”.

Segnalo poi la frase: “l’Italia vive ormai comodamente e confortevolmente in questo ovattato fatalismo, una realtà priva di quell’horror vacui che sarebbe necessario per svegliarsi”. 
Qui tendo a dissentire, a me il mondo attuale appare barocco, spinto da “horror vacui”. Ogni spazio della vita tende ad essere saturato da suoni, immagini, video, comunicazioni, merci. L’individuo non deve essere lasciato solo con se stesso. 
E allora ciò che a me appare fondamentale è ritrovare il silenzio, la solitudine, la quiete, per ritrovare i propri ritmi, i propri sentimenti, la propria anima.

Una noterella finale: c’è qualcosa che chiamerei “la sindrome del Gattopardo” o “la sindrome di Salina”. E’ quella convinzione, che si ripete di generazione in generazione, di essere l’ultima generazione valida, “dopo di noi solo mezze calzette”. Lo pensavano i miei due nonni e l’ho ritrovato in giovani di meno di trent’anni, che tra di loro si dicevano “i giovani di oggi sono tutti smidollati”.

lo
ciao
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