L’articolo di Gimmi Santucci, qui su Frontiere , intitolato “Italia. Un’espressione da riconsiderare” per la sua pregnanza di idee mi ha indotto riflessioni attuali e rimemorato antiche considerazioni.
Bene ha fatto Santucci a situare il primo evento storico che ha sancito espressamente l’esistenza dell’idea di Italia: la guerra sociale di epoca romana (91-88 a.C.); i Marsi e i Sanniti fieri rivali di Roma, legati ad essa da patti che ne definivano la condizione di “socii”, non godevano pienamente dei vantaggi della cittadinanza romana e la reclamavano armi in pugno[1].
La capitale di questa alleanza era Corfinium nei pressi dell’attuale città de L’Aquila.
Ufficializzarono questa posizione con la coniatura di una moneta che rappresentava l’area appenninica[2] – la facoltà di battere moneta è sempre stata concepita come segno della sovranità (!)-: sul recto di questo conio compare la scritta ITALIA.
Possiamo tralasciare la descrizione storica del prosieguo di questa lotta (nell’88 a.C. Silla concesse loro la cittadinanza integrale), ciò che a noi qui interessa è analizzare l’idea di Italia. Cercheremo di considerare gli aspetti vari: territoriale, culturale, etnico, linguistico.
Livio ci dice (XXIX,10) citando addirittura gli antichissimi Libri Sibillini «quandoque hostis alienigena terrae Italiae bellum intulisset»[3] che le genti al di fuori della dorsale appenninica e delle lingue latino-osco-sabelliche dovevano subire la exterminatio, l’espulsione violenta. Chi erano queste genti? I Greci e i Galli, i primi situati nel sud e gli altri nella pianura padana: all’epoca dunque l’Italia omogenea per gli aspetti detti più sopra era definibile attorno all’appennino.
Ma, come ben dice l’Inno di Mameli: «…che schiava di Roma Iddio la creò», fu proprio la romanità -antica e poi più bassa nel I secolo avanti Cristo- a riunire, consolidare e difendere l’estensione territoriale come oggi la conosciamo. Fu dapprima Giulio Cesare che negli anni intorno al 60 a.C., interessato a porre basi solide alla sua espansione nella Gallia Transalpina (attuale Francia), comprese tutta la Gallia Cisalpina (al di qua delle Alpi) entro la definizione di Italia: la fondazione cesariana di una città come Nova Comum (oggi Como) ne è testimonianza evidente. Dal punto di vista ideologico-propagandistico tutta l’operazione si avvaleva dello slogan dell’UNA PATRIA, voluto da Cesare stesso: l’Italia come Patria di tutti gli abitanti al di sotto delle Alpi nasceva così compiutamente (in senso politico-territoriale) più di duemila anni fa!
Ma c’è di più: il “figlio” di Cesare, l’Augusto, ripartì tutta l’Italia in 11 regioni («discriptio Italiae totius in regiones XI») sancendo autorevolmente l’unità di luoghi e genti diverse ma riconosciute nella patria unica.
Dopo la caduta dell’Impero Romano, l’Italia subì per più di un millennio dominazioni straniere ma l’”idea” che fosse un’unità identitaria culturale e linguistica sopravvisse sempre: lo stesso Dante nel 1300 parlava di “serva Italia”, ribadendo, sia pure con l’aggettivazione di sofferenza, la percezione unitaria etnica (e grazie a lui di lì in avanti linguistica!) della stessa.
Secoli dopo però si incontra uno snodo epocale: il periodo napoleonico.
Prima nel 1796 nasce -per volontà di Bonaparte- la Repubblica Cisalpina poi allargata in Repubblica Italiana, con tanto di tricolore modellato su quello francese, ma con i colori verde, bianco, rosso arrivato fino a noi, da cui poi deriva il Regno d’Italia. Quest’ultimo sebbene territorialmente dimidiato, affidato al figlioccio di Napoleone Eugenio Beauharnais, fece sorgere negli italiani -specie in quelli che avendo militato nella Grande Armata si erano forgiati nel fuoco delle battaglie una tempra di combattenti fieri- il sentimento per una patria comune, nobile e, almeno negli ideali, indipendente. Tutto ciò immerso in una temperie culturale che si può definire come il campo delle “ideologie culturali dell’Italia napoleonica”: e qui ci troviamo di fronte a problematiche che ci riguardano attualmente.
Con buone ragioni si può ritenere che proprio in questi frangenti storici si possono individuare dei filoni sotterranei che riemergeranno proprio nella propaganda eurista-filo UE che ci ha battuto in breccia in questi anni. E sì, perché quando nel 1815-16 la spocchiosa Madame de Stael si rivolgeva polemicamente ai letterati italiani invitandoli -non senza disprezzo- ad abbandonare la nostra tradizione millenaria bollata come antiquata e “provinciale”, non stava sollevando una mera questione di gusto, solo estetica, ma inaugurava -proprio in quei ripetuti inviti ad abbracciare le creazioni letterarie europee- un preciso filone di attacco (di stampo cosmopolitico-illuministico) all’identità nazionale italiana, alla sua tradizione, alla conoscenza dei suoi capolavori.
Linea che, pari pari, è stata cavalcata nei nostri confronti attualmente dai cecchini euro-globalisti, procedendo contro ogni identità, tradizione, coscienza di sé della cultura italiana. All’epoca furono Monti e Foscolo che resistettero sul fronte puristico-classicistico, oggi non abbiamo campioni paragonabili; d’altro canto non è stato proprio N. Chomsky a codificare tra le tecniche di condizionamento propagandistico quella di “colpevolizzare” e indurre ad auto-disprezzarsi? E qui mi vengo a riallacciare all’altro ottimo articolo apparso su Frontiere a firma di M. Micaela Bartolucci, “Il concetto di patria tra snobismo e populismo[mmb2] ”: per gli italiani la fonte di prestigio e di identità nazionale non può non venire dalla coltivazione della propria cultura, lingua e letteratura, un attacco in termini di demolizione di questa consapevolezza corrisponde ad un vero e proprio “espianto” di identità.
A. Manzoni nell’ode “Marzo 1821” recitava: «…una d’arme, di lingua, d’altare, /di memorie, di sangue e di cor» alludendo alla patria italiana; e se -per comodità- tralasciamo il “sangue”, la privazione della sovranità che abbiamo subìto è iniziata prima con lo scacco dell’”arme” (Armistizio del ’43), poi con l’inquinamento linguistico dei debordanti anglicismi; passando poi per l’”altare” cui ha pensato la Chiesa Cattolica da sola alla privazione di senso.
“Memorie” (tradizione culturale) e “cor” (sentimento patriottico) fanno parte della problematica che abbiamo lamentato (sottoposti a colpevolizzazione e auto-disprezzo): qualcuno diceva in passato “noi veniamo da lontano”, ecco, come abbiamo sopra descritto anche i nostri nemici vengono da lontano!
[1] È sorprendente notare come in questo caso gli “esterni” lottavano per avere un’altra patria in più…per entrare cioè a far parte dei confini di Roma, integrandosi compiutamente in essa.
[2] L’idea di una terra che si identificasse nel versante appenninico -osco-umbro-sabellico- l’avevano ancora prima i greci e la chiamavano ora Esperia (terra ad occidente) ora Ausonia. L’egemonia era comunque degli etruschi e le vicende si intrecciano.
[3] «Nel caso in cui dei nemici esterni invadessero la terra d’Italia», il tutto è analizzato in S., Mazzarino, IL pensiero storico classico, II 1.
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Molto interessanti queste “parentesi” su Italia, Patria e Patriottismo. Sprono a continuare sull’argomento, parecchie sono ancora le cose da dire.
Vista oltretutto la brutale ignoranza che sull’argomento regna incontrastata sia tra le “masse” che, di più ancora, presso il ceto semi-colto (Costanzo Preve). Che io definirei, ancor meglio, semi-analfabeta