Accade in Italia: Primum non nocere o lo spirito del Professor Grassi

Nel Trattato di Diritto Penale del Manzini, si legge, in una nota a margine del paragrafo dedicato alla trattazione dei concetti di negligenza, imperizia ed imprudenza, la poco edificante storia di un pur noto igienista, il prof. G.B. Grassi (cui è dedicato il nosocomio di Ostia), il quale nello scritto “Immunità dall’infezione malarica”, pubblicato su Annali di Igiene Sperimentale del 1899, confessò che, per motivi di ricerca scientifica, aveva iniettato sangue malarico a molti infermi dell’ospedale Santo Spirito di Roma, riuscendo a trasmettere a 13 di loro l’infezione.

Lo stesso ricercatore l’anno precedente aveva trasmesso la malaria mediante puntura di zanzara anofele ad un determinato paziente e, liberate numerose zanzare in altre camere dello stesso ospedale d’intesa con il responsabile della struttura e con un suo collaboratore, fece contrarre la malaria a parecchi altri pazienti, ovviamente ignari dell’esperimento.

Tra il disgusto e l’orrore per un simile accadimento, l’illustre giurista potè concludere: “il Grassi ed i suoi correi si guardarono bene dal farsi pungere dall’anofele; il primo si fece pungere solo dai nati dell’anofele, che egli ritenne, come erano, inidonei a trasmettere la malaria; ecco pertanto un caso tipico di abuso sperimentale volontario e cosciente, cioè di lesioni non colpose, ma prettamente dolose; né l’intenzione scientifica, né l’ignoranza della legge penale possono invero scriminare siffatti esperimenti” (cfr. Manzini V. Trattato di Diritto Penale. UTET, 1950; Vol 1, cap. X: 700).

Questo episodio, che pure appartiene al modus operandi della Medicina dell’800 e che rimanda a certe pratiche deteriori perfezionate su scala industriale da certa medicina tedesca negli anni 1939-1945, mi è venuto in mente all’inizio di quest’anno 2021, quando il nostro Legislatore è intervenuto in materia di consenso alla vaccinazione nei soggetti ospiti di Residenze Sanitarie Assistite (RSA) ed è ritornato prepotentemente ancora una volta alla memoria, quando, con un sussulto di rigore metodologico, l’ente regolatore europeo in materia di prodotti medicinali (EMA) ha ritenuto, qualche giorno fa, di concedere l’autorizzazione condizionata all’adozione da parte dei paesi dell’Unione Europea del vaccino prodotto da AstraZeneca.

Nel comunicato che riassume le motivazioni della decisione di EMA (consultabile sul sito http:// ema.europa.eu/en/news/ema-recommends-covid-19-vaccine-astrazeneca-authorisation-eu), si sottolinea correttamente come il vaccino in questione – nella sua versione originaria, quella basata sulla somministrazione di due dosi standard, essendo l’altra ancora in corso di studio – sia stato testato su una popolazione di età compresa tra 18 e 55 anni, essendo invece meno consistente il numero di persone anziane reclutate nei trial.

Alla luce di ciò, gli esperti di EMA hanno ovviamente ritenuto di suggerire l’impiego del vaccino in questione su persone in giovane età, ma hanno comunque concluso per l’estensione al suo ricorso anche a soggetti anziani, “sulla base dell’esperienza maturata per altri vaccini”.

Gli studi valutati dal gruppo di esperti EMA ai fini dell’autorizzazione condizionata hanno riguardato un gruppo di 24.000 soggetti, arruolati nel Regno Unito (fase 2/3) e in Brasile (fase 3).

In data 8.12.2020 l’autorevole rivista internazionale The Lancet aveva in effetti pubblicato i risultati preliminari di questi studi e, scorrendo il materiale in appendice al lavoro così pubblicato, è possibile avere contezza del numero di soggetti reclutati per la valutazione di efficacia nei due rami, britannico e brasiliano, di età superiore a 70 anni: si tratta di 213 persone per il Regno Unito e di 11 persone per il Brasile, per un totale di 224 soggetti vaccinati su 4440 persone arruolate (pari dunque al 5% dei vaccinati). Nel Regno Unito l’intero gruppo è stato testato sierologicamente e, per valutare l’efficacia sugli asintomatici, le persone arruolate sono state anche sottoposte ad (auto)tamponamenti per successivi esami PCR. In Brasile questo aspetto non è stato altrettanto assicurato.

Per quanto concerne le valutazioni sulla sicurezza del prodotto, il campione è assai più numeroso, anche con particolare riguardo alla categoria dei soggetti di età superiore a 70 anni: 821 soggetti reclutati nei due rami su un totale di oltre 20.000 persone.

A questo punto, avrebbe detto il dr. Lubrano, la domanda sorge spontanea: per i vaccini già autorizzati, a partire dal capostipite prodotto da Pfizer-Biontech, per i quali non è sembrato opportuno sottolineare la distinzione per età invocata da EMA per AstraZeneca, si disponeva, ovviamente, di dati più solidi a beneficio delle persone anziane, sicché qualsiasi inciso sul tema ‘efficacia del vaccino sulle persone anziane’, sarebbe apparso sterile esercizio d’accademia?

La risposta al quesito è contenuta a pag. 20 del documento pubblicato da FDA a sostegno della autorizzazione all’uso di emergenza concessa dall’Ente Regolatore americano a metà dicembre 2020 (la scheda informativa è disponibile anche in lingua italiana): 860 di soggetti di età superiore a 75 anni su un totale di 20.033 persone vaccinate (pari al 4.3%).

Quindi, a voler essere pignoli, non è che i dati relativi al vaccino Pfizer fossero così carichi di numeri riferiti ad una popolazione di età superiore a 70 anni: anzi, in proporzione, AstraZeneca potrebbe aver fornito elementi persino più consistenti (sia pure di poco).

Per di più, come è stato reso noto anche grazie all’importante attività di informazione garantita dall’autorevole rivista internazionale British Medical Journal, il cui Associate Editor non aveva mancato di sottolineare i limiti degli studi e l’ambiguità dei dati raccolti in alcuni interventi molto approfonditi a partire da ottobre 2020 (ancor prima le riserve erano state riportate qui; nonché in BMJ 2020;371:m4037), l’efficacia del vaccino Pfizer nel prevenire la forma severa di COVID 19 è assai più contenuta di quanto fatto veicolare dai media: il 66.4% (come ricordato nel parere FDA, cfr. pag. 30).

Inoltre, gli studi Pfizer – Biontech non hanno valutato i soggetti asintomatici (a differenza del ramo britannico dello studio AstraZeneca), la qualcosa peraltro giustifica la prudenza con cui anche i commentatori più entusiasti hanno sottolineato l’assenza di dati a supporto della capacità di questo vaccino (e di altri suoi analoghi) nel prevenire l’infezione e la sua diffusione.

E allora perché esprimere l’esigenza di un distinguo per il vaccino AstraZeneca, per di più velato da nobili considerazioni di ordine precauzionale?

E sulla base di quali numeri EMA (con AIFA a ruota) ha ritenuto di estendere l’indicazione alla vaccinazione con Pfizer-Biontech a soggetti fragili di età pari o superiore ad 80 anni, senza avvertire l’esigenza di fornire particolari restrizioni?

FDA nell’autorizzare Pfizer-Biontech ha almeno ricordato:

La FDA degli Stati Uniti ha reso disponibile il Vaccino COVID-19 di Pfizer BioNTech sotto un meccanismo di accesso di emergenza chiamato EUA. L’EUA è sostenuta da una dichiarazione del Segretario della Salute e dei Servizi Umani (HHS) che esistono le circostanze per giustificare l’uso di emergenza di medicine e prodotti biologici durante la pandemiadaCOVID-19. Il Vaccino COVID-19 di Pfizer BioNTech non è stato soggetto allo stesso tipo di esame di un prodotto approvato o autorizzato dalla FDA. La FDA può emettere un’EUA quando vengono soddisfatti certi criteri, tra i quali è compresa l‘inesistenza di alternative adeguate, approvate e disponibili. Inoltre, la decisione della FDA si basa sulla totalità delle prove scientifiche disponibili che mostrano che il prodotto può essere efficace nella prevenzione del COVID-19 durante la pandemia da COVID-19 e che i benefici noti e potenziali del prodotto sono più importanti dei rischi noti e potenziali del prodotto. Tutti questi criteri devono essere soddisfatti per permettere che il prodotto sia utilizzato nel trattamento di pazienti durante la pandemia da COVID-19

documento qui

.

EMA, nel concedere a Pfizer-Biontech l’autorizzazione condizionata il 21 dicembre 2020, si è limitata ad affermare che

l’autorizzazione all’immissione in commercio subordinata a condizioni è uno degli strumenti regolatori dell’UE per agevolare l’accesso precoce ai medicinali che rispondono a un’esigenza medica non soddisfatta, comprese situazioni di emergenza come la pandemia in corso. Un’autorizzazione all’immissione in commercio subordinata a condizioni rappresenta un’autorizzazione formale del vaccino che riguarda tutti i lotti prodotti per l’Unione europea e fornisce una solida valutazione su cui fondare le campagne vaccinali.

In ogni caso, EMA ha dovuto sottolineare che

il titolare dell’autorizzazione all’immissione in commercio continuerà a fornire i risultati dello studio principale, che durerà 2 anni. Lo studio clinico e altri studi aggiuntivi forniranno informazioni sulla durata della protezione, sulla capacità del vaccino di prevenire la forma grave di COVID-19, sulla misura in cui il vaccino protegge le persone immunocompromesse, i bambini e le donne in gravidanza, e sulla capacità di prevenire i casi asintomatici.

Nel mentre nel nostro Paese gli sforzi delle Regioni si sono concentranti nella prima fase della campagna vaccinale nel coinvolgimento capillare degli operatori sanitari, anche in considerazione del dato di letteratura per cui COVID 19 nel 25% dei casi è contratta in contesti assistenziali, in vista dell’estensione della campagna ai soggetti ultraottantenni e, successivamente, ultrasessantacinquenni, ci si dovrebbe interrogare su come sarà possibile trasferire un’informazione così complessa a persone che, in ragione della loro età, dello stato di dipendenza e delle patologie di cui sono portatrici, potrebbero manifestare più di una qualche difficoltà nel recepire il significato pieno della questione in gioco.

Sorvolando per un momento sull’approccio sostanzialmente paternalistico adottato dal Ministero della Salute per i soggetti ospiti di strutture residenziali per anziani, per i quali, in forza del contenuto dell’art. 5 comma 2 del D.L. 5 gennaio 2021,

in caso di incapacita’ naturale, ovvero qualora il fiduciario, il tutore, il curatore o l’amministratore di sostegno mancano o non sono in alcun modo reperibili per almeno 48 ore, il direttore sanitario o, in difetto, il responsabile medico della residenza sanitaria assistita (RSA), o dell’analoga struttura comunque denominata, in cui la persona incapace e’ ricoverata ne assume la funzione di amministratore di sostegno, al solo fine della prestazione del consenso di cui al comma 1. In tali casi nel documento di cui al comma 3 si da’ atto delle ricerche svolte e delle verifiche effettuate per accertare lo stato d’incapacita’ naturale dell’interessato. In difetto sia del direttore sanitario sia del responsabile medico della struttura, le attivita’ previste dal presente comma sono svolte dal direttore sanitario della ASL territorialmente competente sulla struttura stessa o da un suo delegato,

appare qui utile riprendere l’insuperabile lezione sul tema offerta dall’illustre giurista Ferrando Mantovani (cfr. I Trapianti e la Sperimentazione Umana nel diritto italiano e straniero. CEDAM, 1974; 208 e segg.), per il quale le norme costituzionali che possono eventualmente giustificare limitazioni al principio della libertà personale e del consenso sono:

  1. L’art. 32 Cost., in quanto prevede – in correlazione al dovere che lo stesso articolo impone allo Stato di tutelare la salute come interesse della collettività – l’imposizione di trattamenti sanitari col contro-limite della riserva di legge, quest’ultimo rafforzato dal rispetto dell’insieme di valori di cui la singola persona umana è portatrice;
  2. L’art. 23 Cost., che prevede l’imposizione di prestazioni personali col controlimite anch’esso della riserva di legge (rafforzato – ci si permette qui di aggiungere – dal contenuto dell’art. 33, 2° comma della Legge 23.12.1978 n. 833, istitutrice del SSN, per il quale i trattamenti sanitari obbligatori debbono comunque essere realizzati nel rispetto della dignità della persona e “dei diritti civili e politici”);
  3. L’art. 2 Cost., che richiede al singolo l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà sociale, oltre che politica ed economica.

Rispetto a tali principi ed a tre possibili ipotesi di trattamenti (quelli posti a vantaggio esclusivo della salute del soggetto; quelli a beneficio della salute del soggetto, ma anche della salute collettiva; quelli infine a beneficio esclusivo della salute collettiva, ma non a vantaggio o addirittura a danno della salute del soggetto), l’autorevole interprete poté agevolmente concludere per:

  1. L’impossibilità dell’imposizione legislativa per il primo tipo di trattamenti sanitari, sia per l’essenza stessa dell’ordinamento personalistico che costituisce l’impalcatura delle norme del nostro Paese, sia in ossequio ai principi contenuti all’interno della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che, col limitare la possibilità di ingerenze della pubblica autorità nella vita privata del soggetto alla sola necessità di tutela della salute collettiva, ha implicitamente escluso la legittimità di ogni forma di ingerenza nell’esclusivo interesse della salute del soggetto destinatario della prestazione sanitaria, ancorché per lo stesso vantaggiosa.
  2. L’imprescindibilità del consenso nei trattamenti sanitari ad esclusivo vantaggio della salute altrui, trattamenti non coercibili, quando, nel singolo caso concreto, il trattamento sanitario si riveli pregiudizievole, anziché vantaggioso, alla salute della persona destinata a riceverlo (si fa l’esempio dell’obbligo vaccinale su soggetto allergico) o persino vietati, quando si sia a conoscenza, a priori, dell’assenza di vantaggio del soggetto candidato a sottoporvisi. Afferma anzi il Mantovani che

    proprio per il fatto che tali interventi vadano a beneficio non della salute del paziente, ma soltanto di altri, potrebbe addirittura sorgere il dubbio che essi non possano essere considerati ‘trattamenti sanitari’, restando in tal caso automaticamente preclusa una qualsiasi loro considerazione agli effetti della previsione dell’art.32.

    Aggiungendo poi l’autore che

    anche muovendo, verosimilmente da una interpretazione assai più lata della locuzione costituzionale, nel senso di desumere la natura sanitaria del trattamento nella sua generica finalità di salvaguardia della salute, non potrebbero comunque ritenersi tali gli interventi meramente sperimentali, mancando essi di ogni funzione sanitaria, anche se effettuati nell’interesse del progresso della scienza medica e, a più o meno lunga scadenza, della salute di tutti.

    Una considerazione che ben si proietta nella realtà dei nostri giorni, in presenza di vaccini introdotti sulla base di autorizzazioni condizionate o di emergenza, concesse in presenza di dati non ancora del tutto solidificati (su studi in fase 2/3 o di fase 3 chiusi dopo pochi mesi di osservazione) e per di più raccolti su limitate porzioni di popolazione stratificate per determinate età.

  3. La possibilità di imposizione legislativa dei trattamenti sanitari a vantaggio della salute del soggetto e della salute collettiva, ricollegantisi, ad esempio, a malattie o al pericolo di malattie contagiose od epidemiche, che in quando tali non limitano i loro effetti dannosi alla salute del singolo che ne è colpito o minacciato, ma sono potenzialmente idonee a pregiudicare la salute di un numero indeterminato di persone.

    L’autore qui riconosce, ad esempio, la liceità di imposizioni di vaccinazioni nonostante il rischio di encefaliti o persino nonostante il rischio di contrarre le stesse malattie da cui le vaccinazioni dovrebbero proteggere per effetto delle medesime vaccinazioni, giustificandola in base al fatto che la vaccinazione va a beneficio del soggetto vaccinato e che il rischio di andare incontro ad eventi avversi è abbondantemente sopravanzato e compensato dal vantaggio di ricevere gli effetti protettivi del vaccino.

    Tuttavia, affinché una simile imposizione possa in concreto essere realizzata senza che ciò si traduca in un atto contrario all’ordinamento personalistico che permea la Carta Costituzionale, occorre che sia soddisfatto un insieme di condizioni, di cui la più rilevante ai fini della nostra riflessione è quella per cui “sulla base delle conoscenze scientifiche il pericolo per la salute pubblica sia eliminabile solo attraverso l’imposizione di quel determinato trattamento e non anche attraverso altre misure meno limitative dei beni della persona o preferite dal soggetto.

E qui, si oserebbe dire, casca l’asino. Perché, anche ammettendo che i vaccini attualmente disponibili siano efficaci nella prevenzione della diffusione del contagio nella popolazione (e sul punto, come detto, i dati disponibili non restituiscono affatto certezze: anzi, alla luce delle osservazioni condotte su soggetti che hanno patito il COVID 19 e, sopravvissuti ad esso, hanno sviluppato un’immunità di durata temporanea, l’eventualità di reinfezione e di trasmissione del virus a terzi non è affatto esclusa, cfr. BMJ 2021;372:n124) e non volendo dare credito alle notizie che provengono da altri Stati dove la vaccinazione procede spedita, ma vengono anche registrati numerosi casi di infezione/malattia (con una protezione osservata nel 33% dei trattati tra prima e seconda dose Pfizer Biontech rispetto al 52.4% dell’atteso, cfr. BMJ 2021;372:n217; per Moderna i primi dati sembrano essere ancor meno promettenti, con un calo della risposta anticorpale, assai significativo soprattutto per soggetti di età superiore a 65 anni cfr. N Engl J Med. 2021 Jan 7;384(1):80-82. doi: 10.1056/NEJMc2032195), delle due l’una: o l’insieme delle misure che da tempo costituiscono l’asse portante della strategia della prevenzione del contagio (e cioè l’uso della mascherina chirurgica in ogni occasione di contatto sociale, il distanziamento fisico, il lavaggio delle mani, il tracciamento e l’isolamento dei contatti stretti di casi accertati), cui si aggiunge, in periodi di particolare criticità, l’adozione del lockdown pur con applicazione a macchia di leopardo nel mondo, sono realmente efficaci – e allora non si comprenderebbe la ragione di una imposizione vaccinale quantunque questa si riveli realmente efficace, ben potendo il soggetto destinatario accettare di mantenere l’aderenza alle predette misure, che comunque sarebbe costretto ad assumere anche dopo aver ricevuto il vaccino, in assenza di dati confortanti circa la concreta capacità di prevenzione della diffusività dell’infezione da parte dei vaccinati -, oppure quello stesso insieme di misure non è in alcun modo efficace – ed allora non si comprenderebbe il motivo della loro perdurante imposizione, sia in precedenza che successivamente all’avvenuta vaccinazione.

E tuttavia, a dispetto di alcune voci che non mancano di esprimere perplessità e riserve sull’effettiva capacità delle misure igienico – comportamentali via via adottate nel prevenire l’infezione e nel circoscrivere la circolazione del virus (di interesse il contributo apparso a dicembre su JAMA circa l’apparente migliore protezione offerta dalle maschere commerciali di stoffa rispetto a quella garantita dalle mascherine chirurgiche), i dati disponibili sembrano confermare come nei Paesi in cui tali strategie contenitive individuali siano state assunte e realizzate in associazione a politiche di severo controllo delle frontiere – Paesi alcuni dei quali presentano una composizione demografica in parte sovrapponibile a quella italiana, si pensi al caso del Giappone – la diffusione del virus all’interno è stata fortemente limitata ed i casi di malattia severa (con impegno delle unità di cura ad alta intensità di assistenza) e di morte sono stati numericamente contenuti, anche a fronte di pochi, mirati e temporalmente concentrati episodi di lockdown (cfr. BMJ 2020;371:m4907). E tutto questo in assenza di vaccini ed in presenza invece di interventi volti a potenziare l’offerta assistenziale e di cura, negli ospedali e nel territorio.

In un bellissimo libro pubblicato in Italia nel 2020 con il titolo “Il peggior nemico”, il prof. Osterholm, un epidemiologo di fama internazionale, racconta come sia riuscito a dimostrare che il vaccino antinfluenzale sia uno dei meno efficaci tra quelli di cui dispone l’arsenale medico.

Da quando esistono i vaccini antinfluenzali, e cioè dalla metà degli anni quaranta in poi, quasi tutti gli studi sulla loro efficacia sarebbero stati di fatto condotti con metodologia non proprio ottimale. Rivisitando i dati, il gruppo di studiosi coordinato dall’illustre epidemiologo è stato quindi in grado di documentare come la protezione fornita sia notevolmente più bassa e che ciò vale per i soggetti di età superiore a 65 anni, quelli che, in teoria, il vaccino dovrebbe proteggere con maggior efficacia. Negli adulti più giovani, invece, l’efficacia documentata si attestò attorno a valori pari al 59%, con il significativo dato dello 0% per il ceppo H3N2 (cfr. Osterholm MT. IL peggior nemico. Abca ed it, 2020; 348-349) per il vaccino usato nell’anno 2014-2015 (in quegli anni, peraltro, anche per effetto di ulteriori fattori extrasanitari, collegati alla crisi economica, diversi Paesi registrarono un aumento della mortalità rispetto all’anno precedente).

Lo stesso autore in altra parte del libro invita comunque a non sottrarsi alla vaccinazione antinfluenzale (e a qualsiasi forma di vaccinazione) sulla base della considerazione, che potremmo definire di senso comune, per cui, qualora pure l’efficacia fosse contenuta entro percentuali inferiori al caso (tra il 30 ed il 50%), ugualmente sarebbe preferibile l’opzione vaccinale rispetto alla prospettiva di incorrere nell’infezione e nelle sue possibili complicanze.

“Du gust is megl che uan”, diceva in fondo l’allora giovane promessa del cinema Stefano Accorsi in un noto passaggio pubblicitario in cui invitava all’acquisto di un altrettanto noto gelato italiano.

E tuttavia questa affermazione di senso comune acquista significato all’interno di una valutazione condotta su prodotti medicinali da tempo immessi in commercio, sui quali si siano sedimentati anni e anni di osservazioni, di documentate riflessioni circa la loro concreta efficacia, anche se limitata.

Possibile che, da un lato, si critichi l’approccio, per così dire empirico, di coloro che nel territorio ritengono di aver individuato lo schema terapeutico più idoneo a fronteggiare le forme lievi-moderate di COVID 19, sottolineandone la poca robustezza delle evidenze a sostegno, e, dall’altro, si faccia leva sostanzialmente sul medesimo approccio per giustificare l’estensione del vaccino su una categoria di persone sulle quali i numeri non consentono allo stato di trarre conclusioni solide in termini di efficacia?

Duole dunque constatare come la pressione esercitata dal COVID 19 abbia caricato di aspettative eccessive vaccini la cui efficacia non è stata ancora del tutto dimostrata quanto meno sul piano della prevenzione della diffusione del contagio ed abbia finito per giustificare la promozione di campagne vaccinali che, anziché essere semmai uniformemente e rapidamente dedicate ad una popolazione omogenea e meno esposta a fraintendimenti interpretativi come quella sanitaria, anche allo scopo di trarre elementi utili a meglio calibrare la valutazione benefici/rischi su soggetti fragili (anziani, immunodepressi, ecc.), sono state proiettate fin da subito anche su persone che abbiamo fin da subito, condivisibilmente, individuato come meritevoli di adeguata protezione (e cioè i soggetti di età superiore a 65 anni, portatori di patologie, ecc.), per le quali tuttavia i dati scientifici disponibili circa l’efficacia complessiva risultano ancora troppo frammentari e comunque appaiono tali da non consentire di derogare alle soluzioni igienico-comportamentali individuali e sociali fin qui adottate, anche per queste categorie di persone, a dispetto dell’avvenuta vaccinazione.

In un siffatto contesto il pericolo di derive paternalistiche in ambienti di RSA non va affatto trascurato: un pericolo cui il contenuto dell’art.5 comma 2 del D.L. 5 gennaio 2021 n. 1 non pone affatto argine, aprendo anzi alla possibilità, come si è prima avuto modo di ricordare, che, in caso di soggetto incapace di esprimere un orientamento, o per incapacità naturale o per irreperibilità del fiduciario/rappresentante legale, il consenso (essendo l’ipotesi del dissenso neppure affacciata) alla vaccinazione sia prestato dal Direttore Sanitario o dal Responsabile Medico dell’RSA, investito della funzione di amministratore di sostegno solo a tale specifico scopo.

Lo spirito del Prof. G.B. Grassi sembra dunque aleggiare sul contenuto del predetto articolo, con buona pace dei principi di beneficialità dei trattamenti sanitari, rispetto della persona umana e tutela della libertà personale che pure dovrebbero informare il nostro ordinamento.

Riceviamo e volentieri pubblichiamo.

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