“Il fine è nulla, il movimento è tutto” questa frase di E. Bernstein sintetizza perfettamente più di un secolo di subconscia attività “politica” portata avanti, specialmente, ma non solo, dalla sinistra, non istituzionale, soprattutto italiana ed è un paradosso politico e sociale con il quale, ancora oggi, dobbiamo confrontarci.
Per capire dove sia l’errore, occorre premettere che, all’interno del contesto in cui è stata scritta, riassume, in estremissima sintesi, il concetto che è alla base di quel fenomeno che prese il nome di Revisionismo del marxismo e che determinò non solo la diatriba con Kautsky ma anche la richiesta della sua espulsione dal Partito Social Democratico Tedesco, questo per un wikipedesco resoconto storico che permetta di capire la portata del paradosso politico.
Infatti, proprio quel concetto, che è stato una delle concause della messa al bando di Bernstein, diventerà, col tempo, l’assunto comportamentale della sinistra estraparlamentare. Coup de théatre!
Il punto non è così evidente; infatti, anche se noi provassimo ad invertire la frase, ci sarebbe immediatamente visibile una sola parte di verità; ovvero se noi sostenessimo che Il fine è tutto, il movimento è nulla, solo la prima parte sarebbe incontrovertibilmente sostenibile ma si tratterebbe di una verità tanto lapalissiana da non necessitare alcuna ulteriore spiegazione.
Venendo alla seconda parte, la riflessione si complica: ogni movimento fine a se stesso può essere perfettamente funzionale al sistema, perché diventa dis-funzionale solo quando ne metta in pericolo la struttura, ne mini le fondamenta o, almeno, faccia parte di un fronte di lotta più ampio che non si esaurisca nella singola causa.
Questo non vuol dire certo aspettare, a braccia conserte, il sol dell’avvenire che, secondo note messianiche organizzazioni marxiste, dovrà ineluttabilmente arrivare perché il sistema capitalista è destinato ad un meccanicistico crollo intrinseco, vuol dire invece, molto semplicemente, contestualizzare le singole lotte non solo all’interno di una visione prospettica più ampia ma anche chiarirne ed evidenziarne l’origine e le motivazioni reali che soggiacciono alla singola protesta.
I residui conflitti sezionali, di diversa natura, a cui assistiamo oggi, sono i figli, sebbene illegittimi, proprio delle lotte che hanno scosso il nostro paese in quel periodo che va dal ’68 al ’79 e che hanno influenzato anche gli eventi successivi, almeno fino alle occupazioni universitarie del ’90.
Analizzando quel periodo storico si può affermare, con certezza e facendo strame di ogni residua illusione romantica, che quelle creature definite “di massa”, come i movimenti studenteschi o i movimenti femministi, nascono proprio in quella temperie culturale e politica e non avrebbe potuto essere diversamente; il problema risiede nella loro natura, ovvero è possibile sostenere che non fossero assolutamente di massa, già per il fatto che ne fossero interessate solo determinate fasce della popolazione: erano molto partecipate, erano continue ma ciò non fa di quei fenomeni sociali dei movimenti di massa, ovvero trasversali socialmente. Questa è stata una delle pietre tombali di quei movimenti.
Ma che cosa intendiamo per movimento? Da un punto di vista politico, un movimento è un’aggregazione diversamente strutturata rispetto ad un partito, ovvero un’entità che, presumibilmente, si aggrega spontaneamente; se non che lo spontaneismo, in politica, non esiste: nessuno si aggrega spontaneamente ad altri e qui sta l’inganno! Un inganno durato più di un secolo ma ancora ammaliante perché fa pensare a qualcosa di puro, di ingenuo, di semplice, per l’appunto, spontaneo, non costruito. Ecco svelato l’errore concettuale che soggiace al fraintendimento.
Un movimento non ha nulla di spontaneo, si crea per precisa volontà di qualcuno e si sviluppa per precisa azione di qualcuno, un movimento si impone; ma non è neppure questo il problema, la criticità di qualsiasi movimento risiede nella sua stessa natura, nel suo essere effimero e finalizzato a raggiungere un singolo obiettivo: una volta conquistato, anche parzialmente, il movimento si scioglie, non ha più motivo di esistere e coloro che tanto si erano agitati ed aggregati, ritornano alla loro esistenza, a buon bisogno, senza interagire mai più.
Questo però è un limite solo se visto da una certa angolatura politica, perché se lo si guarda dal punto di vista del pensiero dominante, il movimentismo, è una vera e propria manna: è limitato ad una finalità, non rappresenta alcun reale pericolo sociale, ed è sufficiente accontentare, anche solo in parte, le sue richieste affinché esso si smembri ed inizi a perdere i pezzi fino a scomparire.
Maestri assoluti di creazione di movimentismo, nel nostro recente passato, furono i Radicali e ciò che plasmarono intorno al referendum sull’aborto ne è un esempio lampante: grandi manifestazioni, sull’onda dei movimenti femministi della sinistra, che portarono ad una legge svilente ed imperfetta che faceva solo il gioco del pensiero dominante ed in cui la donna, come essere umano, al di là della vulgata antiabortista altrettanto funzionale allo stesso sistema, non era nulla, non era considerata se non come pretesto, come semplice oggetto del contendere di due fazioni ideologiche sistemiche. Sarebbe utile ricordare, per togliere ogni residuo dubbio, che il pensiero dominante, generato dal capitale (potenza finanziaria mondializzata) non si è mai curato di fare gli interessi dell’essere umano, semplicemente perché non lo considera se non in qualità di merce…
In tal senso, il movimentismo, può essere funzionale al sistema perché non lo mette in discussione alla radice ma si attacca ad una sovrastruttura, lasciando inalterato il resto: se ho l’influenza posso prendere una medicina per il mal di testa, però, essendo l’influenza stessa la causa del mal di testa, questo ritornerebbe una volta svanito l’effetto palliativo del farmaco, che per altro, non mi darebbe sollievo da altri sintomi associati alla malattia stessa e, soprattutto, non curerebbe la mia influenza.
Il movimentismo, metaforicamente, è la mobilitazione di alcuni strati della popolazione per un Moment.
Proprio grazie a questa sua natura particolaristica, si inserisce perfettamente anche nel divide et impera tanto caro al pensiero dominante: intanto divide, nel più classico degli schemi dicotomici, in un semplicistico pro o contro, e, esattamente questo dividere, ne facilita il controllo ed impedisce il coagularsi intorno ad una visione più ampia che necessita, gioco forza, di una presa di coscienza più complessa, profonda ed evoluta.
Questo è valido in linea generale ma, per spiegarlo più esaustivamente, può essere utile analizzare due movimenti che, in questo secolo, si sono resi protagonisti di due diverse vicende politico-sociali: il primo è il Movimento cinque stelle in Italia, il secondo è quello dei Gilets Jaunes in Francia.
Chiariamo subito che si tratta, in primis, di due esemplificazioni del doppio significato del significante (movimento inteso come alternativa alla struttura partitica e come aggregazione), infatti nulla accomuna, se non il termine Movimento, queste due entità che rappresentano, per l’appunto, due fenomeni totalmente diversi, ontologicamente ma anche per dignità e che sono qui associati solo perché permettono di effettuare riflessioni più generali su tali diverse tipologie: nel caso dei Gilets Jaunes siamo di fronte ad una aggregazione popolare, spontaneista e senza finalità elettoralistiche mentre nel caso dei Cinque stelle, parliamo, semplificando per brevità, di un soggetto più strettamente finalizzato, in ultima analisi, a ricoprire un ruolo all’interno dell’agone elettorale al fine di svolgere un’evidente funzione di Gate keeping.
Come detto, la natura e la genesi del Movimento cinque stelle, nato come Gate keeper, per finalità meramente elettoralistiche, al di là della narrazione accreditata, aveva come unico scopo quello di assorbire il crescente malcontento sociale, facendo proprie alcune rivendicazioni diffuse, tra le quali, le più visibili, all’interno del suo programma elettorale, erano quella no Euro e quella contro le vaccinazioni obbligatorie, per poi renderle inservibili, facendone lettera morta: si è trattato di un mero tradimento delle aspettative (delle promesse elettorali) per la semplice ragione che, chi lo ha creato e sviluppato, ovvero la testa, aveva ben chiaro questo obiettivo fin dalla sua fondazione mentre, purtroppo, chi lo ha seguito, pur in perfetta buona fede, se ne è reso conto solo quando sono arrivati al governo rinnegando, platealmente, ogni promessa. Ma per questo era nato, quindi nessun stupore!
Ben diverso, come chiarito sopra, il caso del movimento francese dei Gilets Jaunes, imponente perché di massa, rappresenta il solo esempio recente di una vera mobilitazione trasversale dopo anni di stagnazione, purtuttavia recava in sé due fallacie: la prima è la mancanza di una direzione univoca, politicamente determinata, verso cui incanalare la lotta, la seconda è una totale assenza non solo di strategia, ma, potremo dire, conseguentemente, di tattica.
Lo prendiamo in considerazione come paradigma poiché ci permette di compiere alcune riflessioni, di ordine generale, applicabili anche a qualsiasi movimento di scopo.
Solo determinando una direzione politica verso cui muoversi e verso la quale far confluire le differenti rivendicazioni sezionali, (nel caso specifico, diverse erano le richieste elaborate nei Cahiers de doléances: tassa sul carburante, aumento salario minimo, referendum di iniziativa popolare, pensioni…) è possibile elaborare la strategia e progettare una tattica.
Preliminarmente, è necessario chiarire che, in qualsiasi lotta, è di fondamentale importanza individuare il nemico, gli avversari e gli alleati: se si commettono errori di valutazione, e si confondono i ruoli, si è destinati alla sconfitta.
Chi è il nemico? Il neoliberalismo, certo, ma questo è valido in generale, più preciso è indicare che il nemico, direi fisico, si manifesta, almeno in Europa, nel vincolo esterno dell’Unione che, travalicando i confini nazionali, impone politiche generali che non tenendo assolutamente conto delle peculiarità di ogni stato, ne determinano il totale asservimento tramite l’eliminazione del potere legislativo.
Chi sono gli avversari? Conseguentemente alla premessa, l’avversario si identifica con tutte quelle forze politiche che ad essa sono funzionali, che ne riconoscono l’autorità, che ne difendono l’operato, che ad essa si appellano, che ne mettono in pratica direttive, normative, regolamenti… che ne accettano il dominio assoluto, governando non per conto dei cittadini ma come mandatari di questo regime sovranazionale, ovvero il nemico.
Chi sono gli alleati? Tutti coloro che a questo stato di cose si oppongono fattualmente, al di là delle sciocche etichette, avulse da ogni contesto storico, che sono state il fallimento di qualsiasi giusta causa intrapresa in questi anni (la polemica destra/sinistra, da un punto di vista previano, oltre che funzionale al sistema, ha francamente rotto il cazzo!), coloro che si adoperano, politicamente, socialmente ed economicamente, per elaborare una reale strategia per l’uscita dalla UE, almeno come primo passo necessario ed ineluttabile.
Fatte salve queste necessarie considerazioni, qualsivoglia movimento, aggregazione di scopo o metapolitica non tenga conto dei parametri sopra indicati e non abbia chiaro il proprio percorso è, nella migliore delle ipotesi un crogiolo autoreferenziale, nella peggiore, l’ennesimo gate keeper.
Solo facendo proprie le diverse istanze sezionali ed incanalandole in un più vasto programma politico che intenda andare oltre la mera conquista di pochi millimetri di rivendicazioni spicciole, si attuerà un passo avanti contro un percorso, che sembra inarrestabile, verso il baratro etico, politico e sociale in cui, come animali da macello, ci stanno costringendo.
Tutto il resto è noia, opportunismo elettoralistico, indeterminatezza, mero propagandismo e vuota retorica.
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Spero di non offendere nessuno, ma vorrei sapere come sbarchi il lunario la persona che ha vergato questa riflessione. Che professione svolge, quali esperienze politiche ha avuto?