La bolla del consenso

Sono tanto semplici gli uomini e tanto obbediscono alle necessità presenti, che colui che inganna troverà sempre chi si lascerà ingannare.

Machiavelli, ‘il Principe’

Oggi come ieri vediamo le stesse dinamiche di potere e consenso: c’è un principe, o più precisamente un viceré, che pare esercitare un potere – proprio o delegato che sia – senza freni o remore. Dall’altro lato ci dovrebbe essere un Popolo i cui sensi però sono stati intorpiditi e ingannati dagli apparati della società dello spettacolo, le cui bocche di fuoco non si sono mai fermate da quando Pasolini denunciò il “genocidio culturale” e le forme di rieducazione delle masse verso l’omologazione totale.

Intanto l’accumulazione capitalista ha seguito la sua parabola: in fase espansiva prometteva un benessere diffuso, sostenuto da un’inondazione di nuovi beni di consumo, sufficiente a far ignorare la progressiva marginalizzazione non solo delle vecchie culture tradizionali, ma anche della nuova concezione di cittadinanza che tra Costituzione e Statuto dei Lavoratori, con enorme fatica si stava affermando: a forza di miraggi le lotte sindacali furono frazionate sempre più, depotenziate a scaramucce e, affinché si potesse vendere il sogno del miracolo americano, venne sviluppato un apparato culturale e mediatico per alimentare il necessario sonno della ragione, o almeno una pennichella, mentre agli inquieti, a chi non prendeva sonno, veniva presentata un’ampia gamma di sfogatoi fra cui scegliere, dall’isolamento in comunità marginali fino alla lotta armata, colore a scelta, tanto è lo stesso: alla faccia di chi usa la parola ‘complottista’ come sinonimo di fuori dal mondo, già nel ‘74 Pasolini riconduceva “le due differenti, anzi, opposte, fasi della tensione” allo stesso “vertice”.

L’alternativa se c’è è sotto controllo, di lì a poco lo diranno esplicitamente: There is no alternative.

È un fatto che si tende a sottovalutare, ma una rilettura più attenta della storia recente mostra come una serie di provocazioni ben calibrate sia stata (e sia ancora) il migliore strumento in mano a chi governa per mostrare al popolo una sola via: l’obbedienza al vincolo esterno, poiché chi crede che “non c’è alternativa” segue il pastore, comportandosi esattamente come un gregge.

Vale per i cittadini e per le aggregazioni, ad esempio: le BR e la lotta armata di colore rosso, obbligando il PCI a prendere le distanze, ne indebolirono la capacità di fare opposizione perché di fronte alle minacce violente da parte di un nemico esterno, la società intera si raccoglie intorno a chi è preposto per fronteggiarle, si compatta attorno all’esecutivo – amplificando o generando un bisogno di sicurezza – e chi si oppone a questa dinamica è messo all’indice come un nemico della società.

È forse un comportamento che abbiamo visto di recente?

Anche Berlusconi alimentò la percezione di una minaccia comunista in assenza di comunisti, immobilizzando un’oppofinzione ante litteram che era già inutile di suo, e quindi dannosa.

La stessa ’ideologia del loden’, che evidentemente è ancora viva e lotta insieme a loro, ha amplificato la minaccia sovranista, col senno di poi possiamo dirlo, sovrastimandone di parecchio la pericolosità.

Insomma, basta individuare un nemico esterno e s’innesca questa dinamica che automaticamente induce stabilità: è quindi un destabilizzare per stabilizzare.

Allo scopo di indicare il ‘nemico della collettività’, o meglio dello status quo, si confezionano delle simpatiche etichette, per marcarlo, rendere esplicita la sua dissidenza, ci pensa poi il sistema mediatico asservito a descriverne la pericolosità sociale, così creando nelle persone trattate come pecorelle l’esigenza di escluderlo: scatta una segregazione preventiva per “autodifesa eventuale”, un po’ come instaurare un nazismo vero, per difesa da quello immaginato, ma non facciamo paragoni inappropriati!

Da che deriva questa passione per la stabilità? Ricordiamoci che il capitale esige stabilità per prevedere e controllare perfettamente i flussi dei fattori di produzione, in quest’ottica si vede l’utilità di questo automatismo che trasforma un popolo in gregge, che ovviamente non può dispiegarsi se i processi decisionali avvengono con metodo democratico – in particolare la scelta del Parlamento, come organo supremo dell’ordinamento, risponde alla volontà sia di condividere il più possibile l’indirizzo politico, sia di dare tutto il tempo che serve al confronto, il cui esito è sempre aperto e che da quindi intrinsecamente fastidio a chi pretende stabilità e mani libere.

Da qui l’esigenza per il capitale di avere neutralizzato o almeno addomesticato i corpi intermedi… e come si addomesticano?

La cura Ludovico, di Arancia Meccanica, può essere un modo. Non è ovviamente una relazione adatta su cui fondare un rapporto tra cittadino e istituzioni democratiche – ove è quantomeno necessario che le istruzioni siano coerenti tra loro e indirizzate verso uno scopo, un obiettivo, magari quello indicato dalla Costituzione – invece quel che è stato realizzato inizialmente dal governo precedente – e che l’attuale sta completando – è un complesso di suggestioni e forzature fondamentalmente diverso anche dalla rieducazione del drugo o da un percorso di domesticazione di una bestia: manca la coerenza.

È questa una differenza fondamentale che cancella l’approccio costruttivo verso il raggiungimento di uno scopo prefissato, che quindi diventa inconoscibile, potrebbe anche essere assente, e invece aumenta a dismisura il peso dell’arbitrio di chi comanda questo meccanismo.

In tal modo chi lo subisce diventa una semplice pedina, completamente disumanizzata perché assiste impotente – e anzi inconsapevolmente, se vengono gestiti in modo attento il tempo e il tono della narrazione – all’annullamento del proprio libero arbitrio. Con l’imposizione assoluta dell’esecuzione di ordini incoerenti si costruisce l’obbedienza cieca, incondizionata.

Il necessario brodo di coltura è fatto di insicurezza, caos e paura.

Cosa c’è di meglio, per generare smarrimento di una certezza che crolla? Con la successione delle cosiddette riforme (tutte di stampo piduista, guarda caso) e i continui compromessi al ribasso, si sono congelati i diritti in configurazioni sempre più fragili che, esposti alle cicliche crisi, vengono distrutti al passaggio dello schiacciasassi mercato, così siamo arrivati all’era covid con un tessuto sociale completamente smagliato e a brandelli.

La progressiva infiltrazione e cattura delle istituzioni pubbliche, resa manifesta dal legiferare a colpi di decreti, ha ucciso la funzione pubblica e sociale della macchina statale, lasciando in piedi l’apparato solo a funzione meramente ancillare e di difesa degli interessi capitalisti sempre più concentrati in poche mani.

Il fu cittadino è lasciato solo di fronte al mercato che non si accontenta più solo di fare profitti – forse non si è mai accontentato solo di quello – ma vuole un controllo più approfondito del fattore di produzione ‘uomo’, occupando lo spazio lasciato vacante dallo stato cui lascia solo l’onere di eseguire fisicamente tale controllo, quindi…
Basta ‘assembramenti’, restano in piedi le misure restrittive sui luoghi pubblici e, almeno formalmente, sui mezzi pubblici, dove però accade quel che deve accadere: nel ‘carro bestiame’ il fu cittadino prende coscienza del suo stato di umile rotellina dell’ingranaggio.

Basta rispetto della privacy: vaccinarsi è dovere etico, lagggente deve sapere se costituisci un pericolo per la salute pubblica, pare finalmente si siano decisi a riprendere la tradizione dei bei distintivi gialli per i vaccinati, però, notizia di ieri.

Basta autodeterminazione individuale, basta sovranità sul proprio corpo, la tua libertà di scelta termina dove inizia la necessità degli altri di sentirsi sicuri.

Basta anche alla sovranità statuale, a quel che ne rimane, poiché un problema globale si fronteggia con un governo globale! Certo, e per dipingere una parete grande è necessario un pennello grande… il livello è questo.

Basta quindi alla società di massa. Le regole ‘eccezionali’ che gestiscono la vita (fu)pubblica in regime di nuova normalità sono qui per restare, ce l’hanno detto in tutti i modi e il cavallo di Troia per farle accettare è stato l’assillo di una necessità indotta ossessivamente di protezione dei fragili, oltreché di se stessi, così inducendo la strumentalità del proprio corpo che va messo a disposizione di un bene superiore, obbligandoci al recesso dalla volontà individuale.

Un percorso impositivo di questo tipo è usuale in ambienti fortemente gerarchici, addirittura alcuni pensano che la scuola debba essere strutturata in tal modo, ma ogni buon addestratore di cani sa che un rapporto costruttivo non è fatto di sole istruzioni da seguire.

Per ‘tenere in piedi la baracca’ non basta infatti la domesticazione e il controllo del cittadino, gli ordini vanno scanditi bene, è necessario un linguaggio appropriato – ad esempio si dice distanziamento sociale, e non fisico – che blocchi il pensiero in una gabbia di comportamenti ammessi, si rende così immediata la percezione del diverso, di chi è deviante rispetto a questo nuovo ordine sociale, agevolando l’instaurazione del sistema di etichettatura, che precede la criminalizzazione (o, volendo la medicalizzazione, con adeguata ‘cura ludovico’) del dissenso.

Dal governo della ‘polis’ siamo al governo dell’ovile: questa via zootecnica all’obbedienza è costituita di riflessi Pavloviani, ottenuti con i meccanismi basati sull’alternanza punizione-premio visti all’opera quando i diversi vengono puniti e altri no: chi corre o prende il sole sulla spiaggia o va in barca – anche da solo – quando Lvi – il viceré – ha deciso che non si può.

Nell’imposizione della distanza come nuova regola, non c’è solo la conseguente discriminazione e svilimento di chi non può permettersela, c’è anche un filtro preventivo del tutto arbitrario al naturale svolgimento delle relazioni umane, che ostacola la reciproca comprensione. Allo stesso modo agiscono l’obbligo di coprirsi il volto e il generalizzato sospetto che il prossimo sia portatore di un male insidioso e letale: bloccando il riconoscimento dei simili, distruggono la capacità relazionale umana. Però tranquilli: fanno i corsi per educare all’affettività, quindi andrà tutto bene.

A proposito di comunicazione, che fa rima con manipolazione, dalla legge Mammì e la corsa al ribasso sulla qualità che ne è seguita, che ha invaso tutte le forme espressive, hanno avuto ‘il la’ i mezzi di disinformazione di massa, ma la loro pervasività ed efficacia nel replicare il divide et impera a livello atomico come vediamo oggi è frutto dello sviluppo tecnologico palmare digitale che concretizza un doppio inganno: il primo è che lo strumento sia parte di noi (finestrella aperta senza la quale l’approccio transumano al dominio dell’uomo neanche esisterebbe) inducendo una familiarità che non ha senso e una fasulla reciprocità; il secondo è che quello strumento ci permetta di impostare relazioni ‘naturali’ e che la realtà virtuale che rappresenta sia reale e non virtuale. La scuola, il lavoro, l’amore e le amicizie, insomma tutte le relazioni umane, se “svolte a distanza” vengono completamente snaturate e diventano altro.

Si crea così una distanza propria del ‘mezzo’ espressivo – che davvero sta in mezzo, concretamente si frappone tra gli interlocutori -, distanza che però non viene percepita, proprio perché non essendo naturale tende a sfuggire ai sensi, ma si aggiunge alla normale differenza di vedute e può generare un’affastellarsi di incomprensioni che non è facile evitare, arginare o sanare, immersi come siamo nelle urgenze indotte da una precarietà di vita generalizzata.

Così l’uomo resta solo, chiuso in una propria bolla di sensi offuscati che separandolo dalla realtà di un lavoro (quando c’è) sempre più alienante e svuotato di senso che lo rende anche oggetto di dinamiche che non controlla, mentre gli oggetti vengono umanizzati…ma non ampliamo troppo il discorso.

Cosi si è realizzato il totale svuotamento dei corpi intermedi di cui restano i soli recinti: il muro di gomma mediatico impedisce il riconoscimento delle comuni esigenze, ed ecco servita la lottizzazione della politica e delle attività sindacali al solo beneficio di quegli enti privati che ci ostiniamo a chiamare partiti e sindacati. In questo divide et impera ogni capo di partito, o sindacato, è un sultano.

Tante bolle con le pareti mediaticamente sostenute la stessa etichetta sopra, vengono infatti riunite in una scatola e magari firmano tutte insieme per legalizzare la cannabis o l’eutanasia o per l’ennesima riforma, son quelli i problemi, no? Lo vedremo il 15!

La cosiddetta ‘appartenenza’ è ormai, semplicemente, un comune affidarsi a questa o quella mano che usa il tuo affido spacciandolo per consenso, opportunamente disinformato mediante appositi canali che bloccano il dialogo con chi è fuori da quella bolla di appartenenza. Credo sia questa la maggiore conseguenza che l’innovazione digitale, tanto sbandierata, ha avuto sul sistema mediatico: eliminare la capacità di confronto e dibattito, privando di senso la locuzione ‘tessuto sociale’ e facendo apparire inutile ex ante l’istituzione fondamentale del nostro ordinamento. Un ‘parlamento’ dove non ci si parla più per confrontarsi costituisce un problema in sé, che si somma all’incapacità dei suoi componenti, scelti per fedeltà al capo, non certo come l’articolo 49 imporrebbe.

È una politica senza ‘polis’ perché agita nella torsione personale e carismatica, che ha colonizzato interamente lo scenario italiano dagli albori del berlusconismo al botto grillino, che gonfia in modo spropositato il concetto di delega e lo intesta al solo capo partito, massimizzando così la distanza tra l’eletto e il fu rappresentante, che su tale insulso piedistallo viene mitizzato per le lotte che ‘eroicamente‘ conduce, dall’elettore-fan, grazie soprattutto a una comunicazione più diretta, disintermediata, egemonizzata dai ‘social’.

I profeti di questa involuzione sono stati ovviamente i 5s, subito seguiti dalla nuova generazione piddina postveltroni (ma i massimi interpreti sono oggi i leghisti), i media si sono presto adattati a questo contesto innovativo regredito, abbandonando definitivamente ogni parvenza di professionalità, riversando loro stessi sul pubblico quell’emotività e quei modi più diretti (che debuttarono col caso Rampi) e colloquiali che insieme riescono ad oscurare ed espungere rigore e oggettività da ogni critica.

Da qui passa, per esempio, l’infantilizzazione della società nonché la trasformazione del sostegno politico in tifo.

Avvicinandoci all’anno terzo dell’era covid, è sotto gli occhi di tutti la sfacciata colpevolizzazione delle masse, il totale abbandono del sistema normativo vigente e sua sostituzione con lo stato di eccezione permanente: la norma va bene in una situazione normale, dunque il diritto di riunione va sostituito con il divieto di assembramento, il diritto di circolazione cancellato dall’imposizione del lockdown, invece del diritto di espressione c’è l’autocensura e ora l’avvento del lasciapassare verde come perfetto strumento per limitare il diritto allo studio, al lavoro, alla sanità, alla giustizia e subordinarne la fruizione all’obbedienza al nuovo regime di controllo zootecnico.

Le totalità dei partiti che oggi calcano la scena hanno l’arduo e infame compito di alimentare come un Sisifo questo meccanismo continuo di creazione ed esplosione di bolle di consenso, il metodo è sempre lo stesso, l’abbiamo visto molte volte: si attira consenso su un ‘homo novus’ attorno al quale si sviluppa opportunamente il culto della personalità e vi si cuce, a misura, un vestito di banali declinazioni di temi reali presentati sempre in veste semplificata e in chiave ‘innovatrice’, meglio se già sono presenti associazioni che di quelle istanze si occupano, così basterà guidarvi sopra i riflettori mainstream per ricevere da queste gratitudine e, a tempo debito, voti.

Nel frattempo si occupano (o cooptano) tali soggetti associativi, vi si mette sopra il cappello e si arricchisce la propria narrazione di un altro pezzo, vicino alle difficoltà dei cittadini: i 5s lo fecero con i rifiuti, il forum dell’acqua, un certo ambientalismo e cavalcando miraggi come l’innovazione tecnologica, la democrazia diretta e la meritocrazia, temi parzialmente sovrapponibili a quelli che hanno alimentato per decenni il voto piddino, prima dell’all-in “vota la scienza, vota il pd”.

La stessa lega (poi seguita da fdi) ha cavalcato il cosiddetto sovranismo per catturare il voto delle vittime della crisi ed estrarre profitto elettorale.

Si crea su quelle basi una narrazione che appare coerente e credibile, cui pezzi dell’opinione pubblica sono spinti ad affidarsi e su tale affido fortemente carismatico si crea una relazione di dipendenza, come per le telenovele, che non casualmente va a finire sempre allo stesso modo, come la favola del pifferaio di Hamelin… Le macerie risultanti da questo processo vengono il più ampiamente e velocemente possibile riutilizzate per avviare il successivo giro.

Si tratta di personalità che appaiono perfette ‘per fare il botto’, ma che hanno vita sempre più breve (spesso vittime del loro stesso narcisismo) e che però possono, di norma, essere usate una volta sola, come cartucce di un fucile. Per il materiale politico di risulta si può trovare posto in organi sussidiari, partecipate, fondazioni varie, …

La dinamica di questo processo però non è circolare, chiusa, ma è dissipativa: ad ogni giro, una parte di cittadinanza resta delusa, rassegnata e disillusa rispetto alla ‘politica attiva’ e infatti abbiamo visto l’astensione crescere sempre più, fino a costituire – già nelle politiche del 2018! – una percentuale di cittadini maggiore degli elettori della coalizione vincente e più che doppia rispetto a chi ha votato il partito di maggioranza relativa! Situazione impensabile prima degli anni 2000. Come nei frattali, questa dinamica si ripresenta anche a ‘livelli micro’, pensiamo agli attuali eredi del PCI e alla costellazioni di altre formazioni minori.

In conclusione, tra le risposte al ‘che fare?’ va messa una strategia che punti a disarticolare il processo e demolire i gangli fondamentali, anzitutto annullando la distanza che si continua a voler imporre, sia ‘orizzontalmente’ tra gli esseri umani, sia ‘verticalmente’ verso le istituzioni.

Il ritorno a una vera azione politica non può che basarsi su un confronto aperto che eviti l’estrema polarizzazione volta a dividere in tante gabbie separate il conflitto sociale, depotenziandolo e neutralizzandolo, finendo poi a menare le mani come sfogatoio e concedendo un perfetto assist alla stretta sulle manifestazioni “da condannare“.

Si deve invece favorire il riconoscimento delle comuni necessità, di rispetto dei diritti fondamentali e della dignità umana, contribuendo ad allargare il Fronte che già da mesi ha intrapreso questo percorso.

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