“I sette pilastri della saggezza”: Invito alla lettura

“Oren” lo chiamavano i cabibbi, “El aurens” li correggeva lo sceicco…

Oggi lo conosciamo tutti come “Lawrence d’Arabia”. Il suo vero nome era Thomas Edward Lawrence (anche se preferiva farsi chiamare semplicemente T.E.L.) e fu l’autore del testo di cui oggi parleremo.

«L’ometto simpatico cui è stato affibbiato per l’eternità, il nome di Lawrence d’Arabia, detestava quel titolo» scrive nell’introduzione che volle dedicare a “I sette pilastri della saggezza»[1] il noto romanziere E. M. Foster. Qual è il soggetto di questo libro lunghissimo?

È la rivolta scoppiata in Arabia contro i turchi, e descritta da un inglese che vi ebbe parte; egli non ci permetterebbe di scrivere «che vi ebbe una parte di primo piano». La storia inizia con la visita preliminare a Rabegh e l’accordo con Feisal… Termina con “la presa di Damasco; gli eserciti uniti entrano in Damasco, la rivolta è finita con un trionfo”. E questa sarebbe la mera trama ma sempre Foster nell’Introduzione precisa «attorno al polo centrale della cronaca di guerra, T.E. ha eretto un padiglione straordinario, intessuto di ritratti, descrizion , filosofie, emozioni, avventure, sogni.».

Foster, come filo-guida per comprendere appieno il senso dell’opera, ci segnala passi come il seguente:

«Dalla roccia una polla argentea sgorgava nella luce del sole. Mi avanzai per vedere la sorgente, un poco più piccola del mio polso, che zampillava da una fessura nella roccia. L’acqua finiva spumeggiando, in un bacino basso, subito dietro il gradino che segnava l’ingresso. Le pareti e la volta della spaccatura rocciosa gocciolavano di umidità. Felci ed erbe folte, di un color verde intenso, ne facevano un paradiso di cinque piedi quadrati.

Stando sopra il sentiero fragrante e pulito dall’acqua spogliai il mio corpo sudicio, ed entrai nella piccola vasca naturale per risentire finalmente la freschezza dell’aria e dell’acqua sulla pelle stanca. Faceva deliziosamente freddo. Restai tranquillo, lasciando che l’acqua limpida, color rosso scuro, mi corresse sul corpo con rivoli sottili, e lavasse via la polvere del viaggio. Mentre giacevo così, felice, un vecchio in brandelli, dalla barba grigia, un volto dai lineamenti rozzi e forti, ma con un’espressione di grande stanchezza, risalì lentamente il sentiero, fino a trovarsi di fronte alla sorgente. Là si lasciò cadere con un sospiro sui miei abiti stesi su un masso accanto al sentiero perché il sole cacciasse i parassiti di cui brulicavano. Il vecchio mi udì e si reclinò a guardare con occhi indeboliti dai reumi quella cosa bianca che guazzava nell’acqua oltre il velo della luce solare. Mi fissò a lungo; poi sembrò soddisfatto e chiuse gli occhi gemendo “L’amore viene da Dio, è di Dio, e torna a Dio”.»

Conclude Foster: «Prendiamo la compassione come nostra stella polare; ci guiderà attraverso la psicologia dei Sette pilastri». Essa disperatamente sopravvive in mezzo alle esplosioni al fulmicotone, le urla dei turchi morenti, gli scontri nelle riunioni militari, l’incandescenza delle sofferenze personali.

Ma leggiamo ancora. Lasciamo parlare lui, l’autore, nella densa prefazione.

«Questo libro non traccia che il percorso della libertà araba dalla Mecca a Damasco [….]. Fu una guerra araba, condotta e guidata dagli Arabi, per uno scopo arabo, in Arabia [….]. In realtà non tenni mai alcuna carica fra gli Arabi, né fui mai incaricato della Missione Britannica presso di loro.»Ma noi oggi sappiamo che la Libertà, la casa dai sette pilastri non fu poi raggiunta, il Trattato Sykes-Picot deluse freddamente le aspettative. «Ma quando fummo vittoriosi, all’alba del mondo nuovo, gli uomini vecchi tornarono fuori e ci tolsero la vittoria, per ricrearla nella forma del mondo vecchio che essi conoscevano. La gioventù sa vincere, ma non sa conservare la vittoria, ed è pietosamente debole dinanzi all’età matura. Balbettammo che avevamo combattuto per un nuovo cielo ed una nuova terra, ed essi ci ringraziarono cortesemente e conclusero la loro pace. Tutti gli uomini sognano, ma non allo stesso modo. Coloro che sognano, di notte nei ripostigli polverosi della loro mente, scoprono, al risveglio, la vanità di quelle immagini; ma quelli che sognano di giorno sono uomini pericolosi, perché può darsi che recitino il loro sogno ad occhi aperti, per attuarlo. Fu ciò che io feci.».

«Quando vincemmo, fui accusato di aver messo in pericolo i profitti inglesi sui petroli della Mesopotamia, e d’aver rovinato la politica coloniale francese nel Levante. Temo di sperare che sia davvero così.».

Ma allora perché tanto slancio combattente? Foster -tornando all’Introduzione- prova a spiegarlo: «Quel che T. E., personalmente, pensasse della guerra è impossibile dirlo. Passò gran parte della vita a far guerre…e tuttavia le riflessioni nel capitolo trentatreesimo dimostrano che non credeva nella necessità di uccidere la gente. Probabilmente…come tutti noi accettava la teoria della inevitabilità della guerra come un buon mezzo per mettersi a posto la coscienza.»[2]

C’è poi un’altra osservazione di tipo sociologico o -se si preferisce- scenografico: il libro descrive quella che forse sarà l’ultima guerra avente in sé qualcosa di pittoresco. Cammelli, pennoni, un trenino che salta in aria per lo scoppio di piccole cariche di dinamite, in mezzo al deserto: sono tutte cose che sarà difficile che si ripeteranno. La prossima volta gli aeroplani faranno un tappeto indistinto di morte su ogni cosa; mentre invece in questa storia l’aeroplano è solo un visitatore, che arriva negli ultimi capitoli, ad aggiungervi un brivido nuovo. …La rivolta araba sarà probabilmente ricordata proprio perché si svolse in condizioni arcaiche. Fu l’ultima prodezza del dio della guerra, prima che rinunciasse alla propria divinità e si trasformasse in mago della chimica.

I sette pilastri della saggezza è un libro che pullula di personaggi inglesi ed arabi, famosi perché passati alla storia e ingenui, sconosciuti.

Tra i primi il grande generale Allenby, Clayton dell’Ufficio Arabo, Lloyd George e una serie infinita di ufficiali e sottufficiali; riguardo a tutti T.E.L. annoterà: «Questo racconto…come tutte le storie di guerra, è anche più ingiusto verso il soldato senza nome: che perderà, per forza, la sua parte di merito, finché non potrà scrivere da sé i bollettini.»

Tra i secondi spicca subito il principe Feisal, figlio di Hussein sceriffo della Mecca, «Subito, al primo sguardo, capii che quello era l’uomo che cercavo in Arabia, il capo che avrebbe portato la rivolta araba al pieno successo. Feisal era di figura alta e sottile, simile ad una colonna nella sua veste bianca e nel “burnus” bruno, fermato con un nastro color scarlatto vivo e oro. Teneva le palpebre abbassate; la sua barba nera e la faccia pallida facevan riscontro come una maschera alla strana e tranquilla prontezza del suo corpo. Teneva le mani incrociate sull’elsa della spada.».

Seguiva poi il compagno “dell’impresa”, lo sceriffo Alì degli Arit.

E ancora quella figura feroce e buffa insieme di Auda Abu Tayi, capo degli Howeitat, metà predoni e metà soldati, grazie ai quali Lawrence potrà prendere Aqaba da via di terra attraversando la tremenda fornace del deserto di Nefud. E -non ultimi, per evidente proiezione- i due bastardelli Farraj e Daud che Lawrence (nome della madre e non del padre) assunse come servitori degni di lui.

 E insieme come in un odierno catalogo di viaggi di avventure esotiche nomi come: pozzo Mastura, Uadi Safra, Uadi Ram, Yenbo… E poi c’era lui l’”inglese”: di origine gallese, studente a Oxford di archeologia e lingue classiche che aveva dato la tesi sui castelli dei crociati. Le biografie ufficiali lo dicono figlio naturale di Sir Chapman che non lo riconobbe insieme ai fratelli; alludono anche ad alcuni tratti di masochismo patologico a cui qui non si sarebbe nemmeno accennato se certe peculiarità caratteriali non fossero strettamente legate alla “Rivolta del deserto”. Così nel capitolo I:

 «Eravamo un esercito centro a se stesso, senza parate né passi d’obbligo, consacrato alla Libertà, il secondo credo dell’uomo, una meta così tirannica da divorare tutte le nostre forze, una speranza di tanto trascendente da consumare nel suo splendore tutte le nostre ambizioni passate. Col trascorrere del tempo, la necessità di combattere per l’ideale ci afferrò senza scampo: calpestava le nostre esitazioni. Volenti o nolenti, divenne per noi una fede. Ci eravamo fatti suoi schiavi, consegnandoci alle sue catene, pronti a servir la sua santità, lieti o malcontenti che fossimo. La mentalità degli schiavi comuni è spaventosa –hanno perduto il mondo. E noi avevamo arreso alla suprema cupidigia di vittoria non il solo corpo ma anche l’anima! Spogliati, per il nostro stesso atto, di moralità, responsabilità, volontà- come foglie morte al vento…Ogni giorno qualcuno moriva, e chi restava sapeva di essere soltanto un pupazzo sulla scena di Dio: e davvero, il burattinaio era spietato, spietato finché coi piedi piagati potevamo ancora incespicare sulla strada.»[3]

 A noi lettori rimangono le domande quasi irrisolte: ma costui era Lawrence o “Oren”? Un doppio agente segreto o un eroe romantico? Risponde egli stesso in qualche modo.

«Nel mio caso, lo sforzo di anni di vivere come gli Arabi ed imitare la loro mentalità, mi spogliò della mia personalità inglese, e mi mostrò l’Occidente e le sue convinzioni sotto un aspetto nuovo- che lo distrusse completamente ai miei occhi. Ma allo stesso tempo non seppi arabizzarmi completamente…E’ facile per un uomo diventare un infedele; difficile convertirsi a una fede nuova.»

Terminiamo questo Invito alla lettura con una pagina del vol. II in cui si arriva a dissertare -lo storico classico e l’archeologo non dormiva dunque neanche nelle battaglie- del Cristianesimo:

«Il Cristianesimo mi sembrava il primo credo che proclamasse l’amore anche in quel mondo superiore dal quale il deserto ed i Semiti (da Mosè a Zenone) l’avevano tagliato fuori. Ed il Cristianesimo era una dottrina ibrida, non essenzialmente semitica se non nelle sue prime radici. La sua nascita galilea l’aveva salvato dalla sorte di essere un’altra delle innumerevoli rivelazioni semitiche. La Galilea era la provincia non semitica della Siria; i rapporti con essa erano ritenuti quasi peccato dagli ebrei ortodossi…la Galilea giaceva staccata da Gerusalemme. Cristo ne scelse l’ambiente di libertà intellettuale per diffondervi il proprio verbo; non fra le capanne di fango di un villaggio siriaco, ma in strade lustre, tra fori e case ornate di colonne e bagni in stile rococò, prodotti di una civiltà greca intensa, anche se corrotta, e provinciale, e molto esotica.

I componenti di questa colonia di stranieri non erano Greci…ma generalmente Levantini che scimmiottavano la cultura greca, e producevano in cambio (e quasi per vendetta) non il rigido e banale Ellenismo della Grecia fiaccata, ma un tropicale arabesco di idee contorte, dove il ritmico equilibrio dell’arte e dello spirito greco fioriva in nuove straordinarie forme, arricchite dai colori turgidi e appassionati dell’Oriente. I poeti di Gadara, balbettanti i loro versi nella generale atmosfera di eccitazione, specchiavano nel loro ricorso ad una sfrenata voluttà la sensualità e il deluso fatalismo della loro epoca. E da questa mondanità la religiosità ascetica dei popoli semitici traeva forse la fiamma d’umanità e di vero amore che distinse la parola di Cristo, e la rese adatta a penetrare il cuore dell’Europa in un modo inaccessibile tanto al Giudaismo che all’Islamismo.»[4]

BUONA LETTURA !


[1] I sette pilastri della saggezza, Thomas Edward Lawrence, Voll. I e II, Ediz. Bompiani,1964.

[2] In questo capitolo si disserta sui teorici della guerra e della strategia militare: Clausewitz, Cammerer, Moltke. Ancora: Jomini, Willisen. Saxe e Guibert. E naturalmente Napoleone, in Vol. I p. 245 e segg., Ediz. Cit.

[3]P. 24, ediz. Cit.

[4] P. 62, vol. II.

lo
ciao