IL TEMPO DELL’ESSERE

C’è un tempo per ogni cosa.

C’è un tempo per fare ed un tempo per essere.

Fino ad oggi, quello che abbiamo vissuto, e che credevamo di dover vivere, è stato il tempo del fare; agire era diventato un imperativo categorico e, in questo modo, la prassi ha dominato totalmente sulla teoria che è stata relegata ad un ruolo vieppiù marginale, fino a scomparire, bollata addirittura di intellettualismo e considerata alla stregua di pura speculazione solipsistica.

Questa furia movimentista, determinata dallo strapotere dell’agire, è stata ereditata da un lato dalla banalizzazione del concetto insito nell’arditismo, dall’altro dallo spirito mistificatore del ’68, ed è stata la principale causa della scomparsa delle categorie del politico, soppiantate da un’incessante corsa al fare, ad organizzare, che ha portato, contestualmente, anche all’allontanamento dalla partecipazione attiva alla riflessione sui fondamenti della teoria politica.

Il pensiero è rimasto involuto e, di conseguenza, gli epifenomeni hanno potuto regnare incontrastati ed il movimentismo è diventato imperante.

“Fare”, “agire”, “organizzare”, “correre”, “muoversi”, “agitarsi” sono state le parole d’ordine di quest’epoca balorda. Manca, in tutta questa confusione metodologica, una considerazione fondamentale, ovvero che la prassi senza teoria è assenza: privata di una struttura ideologica portante, qualsiasi azione è destinata a fallire perché fine a se stessa, questo è l’errore fondamentale che hanno fatto quasi tutti i diversi e variegati contenitori politici che hanno visto la luce in questi anni.

La prassi è facile perché è banalizzante, l’agire non necessita di spiegazioni approfondite, uno slogan è sufficiente per mobilizzare, al contrario, formulare una teoria politica strutturata richiede impegno e studio ma, soprattutto, richiede la capacità, di chi teorizza, di non scendere a compromessi con coloro che sono più indietro, con chi non è ancora arrivato ad una comprensione totale del reale, inquanto, non mira a raggruppare, il suo fine è spiegare, non si può basare su vuote parole d’ordine, richiede riflessioni profonde e articolate, talora scomode o indigeste ma assolutamente necessarie, non deve convincere o far proselitismo, al massimo può creare spunti di riflessione che portano a condivisione per affinità.

Si è vissuto, troppo a lungo, il tempo del fare, un tempo subito, scandito dalle figure imbarazzanti di leader farlocchi privi di ogni parametro interpretativo profondo.

Abbiamo vissuto il tempo del fare convegni, è stato quello segnato dalla speranza in qualcosa che sembrava possibile: sembrava pensabile, per esempio, mettere in discussione il vincolo esterno europeo e, addirittura, l’euro, attraverso ricette che parevano finanche attuabili; è stato il tempo delle elucubrazioni asfittiche dell’economicismo, adorato al pari di una divinità suprema, il tempo lungo di una genia di economisti che, al pari di sommi sacerdoti devoti ad un culto religioso canonizzato, hanno dominato la scena del dibattito fino ad esautorarlo, deviandolo fino a farlo giungere, finalmente, a quel vicolo cieco a cui la storia recente lo ha condannato: l’economia è solo tecnica e nulla può se non si fa serva delle decisioni del Politico. Era quello stesso  tempo in cui, nientemeno, molti hanno creduto che gate-keeper, nati a tavolino, uniti a beceri populisti padani, animati da inetti ma sferzanti oratori, potessero guidare il nostro paese verso una riconquistata sovranità, tranne rendersi conto, poi, che la loro strategia mirava esclusivamente a spartirsi qualche poltroncina in Italia e a Bruxelles: alla fine, questi miseri figuri hanno perso le chiavi di casa, quelle che avrebbero dovuto riprendersi, e son rimasti chiusi fuori, perché, sebbene dopo sei anni, molti di coloro che avevano creduto hanno smesso di credere.

C’è stato, poi, un altro tempo del fare, quello delle manifestazioni contro una scienza che, al pari dell’economia, ha cercato di diventare religione, idolatrata, egemonica, totalizzante, dogmatica: il contrario di se stessa ma, nel tempo della fantasmaticità, anche questo è stato possibile. Il tempo delle manifestazioni è stato marcato dalla mobilitazione continua delle piazze, l’apoteosi della banalità, il trionfo degli avvocati, dei medici, dei ciarlatani, degli imbonitori, di ballerine e di nani: tutto il circo Barnum del dissenso si è presentato al cospetto di folle belanti, uniche grandi vere assenti, ancora una volta, le categorie del politico. Eppure, la posta in gioco era alta perché era il tempo in cui non era possibile vivere normalmente, il tempo in cui le poche libertà residue sono state sospese, il tempo in cui il controllo è stato assoluto, il tempo in cui il ricatto ha vinto, la menzogna si è fatta verità e l’amministrazione governativa, tecnica o meno, ha gettato la maschera mostrando a tutti quanto assoluto fosse il grado di genuflessione ed asservimento alle élites sovrannazionali.

C’è stato il tempo della reazione, della nascita di decine di contenitori vuoti di contenuto ma ricchi di slogan, chi ha provato ad andare oltre lo slogan è stato ridotto al silenzio, sconfitto dal narcisismo di primedonne che lo hanno distrutto; era il tempo dei confronti, degli incontri, dello scambio, della partecipazione attiva…è durato poco però, perché in soli due anni tutto è tornato a tacere e gli antisistema si sono risieduti comodamente dietro al computer a vomitare la loro rabbia sui social e a palesare la loro voglia di cambiare il mondo senza alzarsi dalla sedia, evidentemente è troppo faticoso partecipare attivamente: anche per questo indebolimento della volontà occorre ringraziare tutti quei cialtroni che hanno cercato di mobilitare all’infinito, che si sono agitati ad ogni stormir di foglia e che, per farlo, necessitavano di chiamare “i personaggi famosi” ed hanno dato voce ad asfittiche figure da baraccone, che vanno avanti per parole d’ordine vuote, incapaci, come sono, di un pensiero o di una visione che sia peculiare o minimamente interessante. Un’accozzaglia da avanspettacolo seguita al pari di illustri pensatori, non sono quelli che Preve chiamava “semicolti”, sono proprio degli ignoranti, degli analfabeti politici che ripetono continuamente confortanti ovvietà.

Il tempo del fare, il tempo dell’agire, del tifare, del prendere le parti in qualsiasi circostanza, per qualsiasi polverone suscitato dalla propaganda sistemica, il tempo di manifestare indignazione o plauso, il tempo di reagire sempre e comunque, anche se solo virtualmente… questo tempo non è tempo, è lo svilimento stesso del tempo e col suo prolungarsi contribuisce, in modo determinante, a decretare la morte, voluta e perseguita anche dal sistema, del Politico, perché lo svuota di contenuti che vengono sostituiti da azioni.

Chi pensa di fare politica soltanto agendo altro non è se non un miserabile cialtrone, è un nemico al pari di chi crede di far politica lanciando slogan o pietosi siparietti da cabarettista di quart’ordine. Costoro, nel migliore dei casi sono inutili buffoni, incapaci di analisi, nel peggiore sono meschini Gate-keeper che, come pifferai magici, possono solo sperare di essere seguiti da branchi inoffensivi di topolini che si accontentano di sentirsi rassicurati nelle loro fallaci certezze spacciate per verità incontrovertibili. Il magico potere del tifo da stadio che si fa miseria ideologica e, come tale, fa facilmente presa: qualsiasi concetto vuoto, ripetuto all’infinito diventa reale e nessuno si interroga più sulla sua effettiva veridicità, il feticcio viene semplicemente assunto come criterio fondante, quindi indiscutibile, ancora una volta il dogma prende il posto della riflessione.

La politica è, prima di tutto teoria e, solo secondariamente, prassi ma, soprattutto, non è mai dogma.

La teoria politica è rivoluzionaria quando sovverte l’ordine accettato e condiviso, quando ne scardina le fallacie, quando è in grado di mutare la Weltanschauung, la visione non solo del mondo ma della storia narrata.

La contraddizione di questi attorucoli da vaudeville, campioni del pensiero debole, ripetitori di ovvietà si vede chiaramente in questo particolare momento storico che rappresenta invece, sia nel sistema che nell’antisistema, il trionfo del dogma, delle verità incontrovertibili: il feticcio che ha la pretesa di farsi ideologia. Eppure…

Siamo di fronte ad uno dei momenti più bui dell’era liberalista, il potere si mostra in tutta la sua orrida forma distruttrice.

Si assiste, totalmente impotenti, alla devastazione reale, non teorica, all’eccidio, alla vera banalità del male ma, esattamente ora, siamo muti, immobili, impossibilitati anche solo a manifestare il nostro disprezzo verso chi massacra, perché il macellaio non si può criticare, il politicamente corretto lo impedisce ed allora questi sovranisti o tacciono per approvazione o, figli della fretta di agire, si nascondono dietro un velato dire che diventa non dire, si subisce in silenzio la mostruosità di un potere che tutto domina e che regge le sorti del mondo cambiandolo a suo piacimento, sovvertendolo ingoiando tutto. I difensori della sovranità tacciono, tranne, ovviamente, organizzare inutili iniziative come la solita marcetta per la “Pace” (sempre e comunque ad Assisi) significante totalmente svuotato di qualsiasi significato ed immemore di un monito fondamentale «se la pace è questa, se la devono godere in pochi, fuoco contro la pace»[1].

La pace, sotto il liberalismo, è accettazione della colonizzazione, parlare di pace sotto regime vuol dire la resa incondizionata al più forte, non sollevare una questione fondamentale come questa significa essere complici del sistema. Il pacifismo, in tali condizioni, non è assolutamente un valore ma un aberrante disvalore.

Questo non è più tempo di fare, non è più il tempo dell’agire semplicemente perché non c’è nulla di reale, che abbia una validità o semplicemente un senso, che possa essere fatto.

Questo deve diventare il tempo di fermarsi: interrompere tutto questo fare smettendo di correre. È il tempo di arrestarsi, questo è tempo della riflessione, il tempo di sospendere la retorica e la banalità.

Questo è il tempo dell’essere.

È esattamente in questo momento di orrore e fatuità assoluta che trova spazio l’essere, al di là dell’apparire, al di là del vuoto che viene sbandierato, oltre il nulla che pervade ogni spazio della realtà consumandola dall’interno e fagocitando, con famelica voracità, ogni millimetro di vita.

Questo è il momento dell’essere che si fa tempo.

Ritornare ad essere diventa il vero atto rivoluzionario che sovverte l’uomo dal profondo.

Dopo essersi abbuffati di fatti vacui e insicurezze gettati fuori a raffica continua sia dal sistema che da improbabili analisti improvvisati, dopo anni di agire sconclusionato ed inconcludente, dopo aver ingurgitato l’orrore, deve tornare il tempo dell’essere, quello che a tutti i costi, e con ogni mezzo, qualcuno sta cercando di cancellare.

«L’esserci, compreso nella sua estrema possibilità d’essere, è il tempo stesso…»[2]


[1] Ernesto de la Serna Guevara.

[2] Martin Hidegger, Essere e tempo, 1927.

lo
ciao